Non poteva mancare in questa nostra rassegna il nome di P. Virgilio Marone, il più grande poeta latino, al quale è legata la sua opera più nota ed importante, l’Eneide, che celebra l’epopea della nascita e della potenza di Roma . Ma ai fini del nostro percorso ci occuperemo di un’altra opera, altrettanto importante e significativa : le Georgiche.
Virgilio nacque ad Andes, un villaggio nei pressi di Mantova, nel 70 a.C. da piccoli proprietari terrieri e si formò tra Roma e Napoli ; visse nel periodo dell’imperatore Ottaviano Augusto e insieme ad Orazio fece parte di quella cerchia di intellettuali che ruotò intorno al braccio destro di Augusto, quel Mecenate che ispirò, potremmo dire con termine moderno, la “politica culturale” del regime.
Mecenate infatti, pur rispettando la libertà creatrice dei poeti e degli artisti che facevano parte del suo ‘circolo’, riuscì ad integrare questi personaggi nel suo progetto di sostegno alla politica augustea, sicché riuscì ad attuare in maniera esemplare (dal suo punto di vista) l’incontro tra politica e cultura. Un capitolo che fa sempre discutere gli studiosi e gli amanti del mondo antico, ma che ci aiuta a scoprire aspetti e modalità del potere, che si ritrovano spesso con carattere di somiglianza e di affinità anche nel mondo moderno.
Ebbene, Virgilio scrisse prima le Bucoliche, egloghe pastorali ispirate al poeta greco Teocrito, poi le Georgiche, un poema didascalico dedicato al mondo campestre, ed infine l’Eneide, il poema epico per eccellenza che cantò la nascita e la grandezza di Roma : tre opere di valore indiscusso, che tutti i manuali di letteratura trattano con straordinaria ampiezza e profondità.
Virgilio morì nel 19 a.C. a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia, dove si era recato, si dice, per approfondire de visu luoghi e siti da lui illustrati nel poema.
Per venire alle Georgiche, bisogna partire a mio avviso da quello che è il motivo sottinteso, ma non per questo meno importante, dell’opera: il sostegno convinto alla politica di Augusto. Il nuovo princeps infatti è, a suo avviso, il solo che può garantire la pace civile nella società romana ed assicurare le condizioni di sicurezza e di prosperità in cui il mondo dei contadini possa ritrovare la sua continuità di vita. Si osservi, en passant, che dopo le più che decennali e travagliate vicende delle guerre civili e l’abbandono totale delle campagne non era facile impostare ed attuare un programma di rinascita sociale ed economica per una serie di ragioni politiche, culturali, finanziarie, tecniche che qui non è possibile investigare.
Le Georgiche sono un’opera didascalica articolata in quattro libri, ciascuno dei quali tratta un tema specifico : il lavoro dei campi, l’arboricultura, l’allevamento del bestiame, l’apicultura.
Ma quello che conta sottolineare è che quest’opera, a fronte di una studiata architettura e di contenuti in gran parte tecnici, è pur sempre un’opera poetica, assistita cioè da una colta ispirazione e sensibilità artistica, che aiutano l’autore a rappresentare un mondo come quello contadino, non esente da incertezze ed inquietudini, con mirabile equilibrio sentimentale, tonale e stilistico.
Virgilio si ispirò per i contenuti al poeta greco Esiodo, autore de Le opere e i giorni e agli scrittori latini Catone e Varrone, il primo autore del De agricultura e il secondo del De re rustica, titoli traducibili con il semplice “L’agricoltura” e, guarda caso, trasmessi dallo stesso codice; per lo stile e l’eleganza dell’eloquio alla poesia alessandrina, quella fiorita soprattutto ad Alessandria d’Egitto.
Dei quattro libri delle Georgiche, il secondo è dedicato all’arboricultura e, in specie, alla coltivazione della vite e dell’olivo : in esso il poeta non rinuncia a dare agli agricoltori i suoi consigli (che sono poi quelli della grande tradizione greca e romana) e a trattare l’argomento con amabilità e rispetto della natura.
Rifacendosi all’opera esiodea Virgilio racconta che nell’età dell’oro, questa mitica età che conobbe una particolare fortuna nella letteratura latina, tutto era concesso gratuitamente all’uomo e il vino scorreva a ruscelli, mentre oggi è frutto del lavoro faticoso ed intelligente dell’uomo. Tuttavia non bisogna vedere in ciò una sorta di punizione, in quanto l’uomo, vincendo le avversità e gli ostacoli, ha potuto sviluppare le sue capacità creative ed organizzative ed emanciparsi da una sorta di indolenza e felicità naturale.
Il libro si apre con l’invocazione a Bacco affinché protegga la terra italica “dove tutto è pieno dei tuoi doni nel pampineo autunno, quando la vendemmia spumeggia nei colmi tini”; il poeta invita il dio a togliersi “i calzari e ad immergere le gambe nude nel nuovo mosto”. Sembra di cogliere in questi versi i colori caldi delle colline destinate a vite e di sentire il profumo intenso del mosto nell’autunno incombente.
Dietro lo scopo dichiarato di dare consigli ai contadini, Virgilio canta con parole d’amore e versi luminosi il lavoro paziente e faticoso del vignaiolo che, per ottenere una buona vendemmia, deve conoscere quali siano i terreni più adatti ai vari tipi di vitigno e quali piante si possano accostare alla vite: “le ridenti viti ben si intrecciano ai tronchi degli olmi”.
Il poeta consiglia anche di fendere con fosse le balze più alte e di esporre al vento le zolle rovesciate prima di piantare “la feconda specie della vite” e di studiare con attenzione il luogo più adatto al primo germoglio delle viti e quello per il loro trasporto.
Egli dovrà segnare sulla fresca corteccia l’orientamento della piccola pianta e capire se convenga piantare la vite in collina o in pianura; nel molle campo, aggiunge, seminerà fitto, perché Bacco non sarà pigro, mentre sui colli aperti darà più spazio a filari ben allineati “affinché il sole tutti li baci e i rami si espandano liberi nel cielo…”.
Piccoli saranno i solchi cui affidare la vite, nella raggiante primavera, all’arrivo delle cicogne; i vigneti non saranno orientati al sole cadente, né gli olivi e i noccioli saranno piantati tra i filari, ma solo olmi e peschi. “Il vignaiolo adatterà canne levigate o pertiche rase o pali di frassino cui le viti possano appoggiare per resistere al vento e , quando i tralci si estenderanno rigogliosi ne stringerà la chioma, ne poterà le braccia e ne frenerà i rami traboccanti; ma finché la vite è tenera egli, con tiepida cura, eliminerà con la mano le foglie superflue, senza toccarle con la falce che il tralcio non sopporterebbe”.
Virgilio parla con amore degli umili gesti con cui la vite deve essere curata se si vuole che dia frutti buoni e abbondanti. Egli non rivendica ai vini italiani il primato assoluto : sa bene che sono più famosi i vini di Lesbo (cantati da Saffo) e che le vigne del lago Mareotide (ad ovest del Nilo) danno ottimo vino bianco e che l’uva greca Psitia è la più adatta al passito; ma egli ama il vino delle colline veronesi, anche se è più famoso il vino Falerno, in Campania, ed è più forte il vino Amineo
(forse del Piceno). Ricorda anche le uve da dessert: l’uva di Rodi, cara agli dei, o la Bumaste dai turgidi grappoli, ma rinuncia a nominarle tutte perché sono più numerose “dei granelli di sabbia del deserto libico”.
Il suo modo di esaltare il vino è quello proprio di un figlio cui il padre ha tante volte spiegato l’arte di “porre in ordine le viti” e che ama il vino in quanto frutto di tanta fatica e della capacità dell’uomo, protagonista e non solo fruitore del “nettare degli dei”.
Insomma, il testo, pur fitto di richiami tecnici ed eruditi, arriva dritto alla mente e al cuore del lettore e gli fa scoprire la sua anima contadina che, pur ammirando i grandi vini internazionali, si commuove al profumo semplice del vino della sua terra, che ridesta in lui memorie e sensazioni profonde e dimenticate.
Virgilio nacque ad Andes, un villaggio nei pressi di Mantova, nel 70 a.C. da piccoli proprietari terrieri e si formò tra Roma e Napoli ; visse nel periodo dell’imperatore Ottaviano Augusto e insieme ad Orazio fece parte di quella cerchia di intellettuali che ruotò intorno al braccio destro di Augusto, quel Mecenate che ispirò, potremmo dire con termine moderno, la “politica culturale” del regime.
Mecenate infatti, pur rispettando la libertà creatrice dei poeti e degli artisti che facevano parte del suo ‘circolo’, riuscì ad integrare questi personaggi nel suo progetto di sostegno alla politica augustea, sicché riuscì ad attuare in maniera esemplare (dal suo punto di vista) l’incontro tra politica e cultura. Un capitolo che fa sempre discutere gli studiosi e gli amanti del mondo antico, ma che ci aiuta a scoprire aspetti e modalità del potere, che si ritrovano spesso con carattere di somiglianza e di affinità anche nel mondo moderno.
Ebbene, Virgilio scrisse prima le Bucoliche, egloghe pastorali ispirate al poeta greco Teocrito, poi le Georgiche, un poema didascalico dedicato al mondo campestre, ed infine l’Eneide, il poema epico per eccellenza che cantò la nascita e la grandezza di Roma : tre opere di valore indiscusso, che tutti i manuali di letteratura trattano con straordinaria ampiezza e profondità.
Virgilio morì nel 19 a.C. a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia, dove si era recato, si dice, per approfondire de visu luoghi e siti da lui illustrati nel poema.
Per venire alle Georgiche, bisogna partire a mio avviso da quello che è il motivo sottinteso, ma non per questo meno importante, dell’opera: il sostegno convinto alla politica di Augusto. Il nuovo princeps infatti è, a suo avviso, il solo che può garantire la pace civile nella società romana ed assicurare le condizioni di sicurezza e di prosperità in cui il mondo dei contadini possa ritrovare la sua continuità di vita. Si osservi, en passant, che dopo le più che decennali e travagliate vicende delle guerre civili e l’abbandono totale delle campagne non era facile impostare ed attuare un programma di rinascita sociale ed economica per una serie di ragioni politiche, culturali, finanziarie, tecniche che qui non è possibile investigare.
Le Georgiche sono un’opera didascalica articolata in quattro libri, ciascuno dei quali tratta un tema specifico : il lavoro dei campi, l’arboricultura, l’allevamento del bestiame, l’apicultura.
Ma quello che conta sottolineare è che quest’opera, a fronte di una studiata architettura e di contenuti in gran parte tecnici, è pur sempre un’opera poetica, assistita cioè da una colta ispirazione e sensibilità artistica, che aiutano l’autore a rappresentare un mondo come quello contadino, non esente da incertezze ed inquietudini, con mirabile equilibrio sentimentale, tonale e stilistico.
Virgilio si ispirò per i contenuti al poeta greco Esiodo, autore de Le opere e i giorni e agli scrittori latini Catone e Varrone, il primo autore del De agricultura e il secondo del De re rustica, titoli traducibili con il semplice “L’agricoltura” e, guarda caso, trasmessi dallo stesso codice; per lo stile e l’eleganza dell’eloquio alla poesia alessandrina, quella fiorita soprattutto ad Alessandria d’Egitto.
Dei quattro libri delle Georgiche, il secondo è dedicato all’arboricultura e, in specie, alla coltivazione della vite e dell’olivo : in esso il poeta non rinuncia a dare agli agricoltori i suoi consigli (che sono poi quelli della grande tradizione greca e romana) e a trattare l’argomento con amabilità e rispetto della natura.
Rifacendosi all’opera esiodea Virgilio racconta che nell’età dell’oro, questa mitica età che conobbe una particolare fortuna nella letteratura latina, tutto era concesso gratuitamente all’uomo e il vino scorreva a ruscelli, mentre oggi è frutto del lavoro faticoso ed intelligente dell’uomo. Tuttavia non bisogna vedere in ciò una sorta di punizione, in quanto l’uomo, vincendo le avversità e gli ostacoli, ha potuto sviluppare le sue capacità creative ed organizzative ed emanciparsi da una sorta di indolenza e felicità naturale.
Il libro si apre con l’invocazione a Bacco affinché protegga la terra italica “dove tutto è pieno dei tuoi doni nel pampineo autunno, quando la vendemmia spumeggia nei colmi tini”; il poeta invita il dio a togliersi “i calzari e ad immergere le gambe nude nel nuovo mosto”. Sembra di cogliere in questi versi i colori caldi delle colline destinate a vite e di sentire il profumo intenso del mosto nell’autunno incombente.
Dietro lo scopo dichiarato di dare consigli ai contadini, Virgilio canta con parole d’amore e versi luminosi il lavoro paziente e faticoso del vignaiolo che, per ottenere una buona vendemmia, deve conoscere quali siano i terreni più adatti ai vari tipi di vitigno e quali piante si possano accostare alla vite: “le ridenti viti ben si intrecciano ai tronchi degli olmi”.
Il poeta consiglia anche di fendere con fosse le balze più alte e di esporre al vento le zolle rovesciate prima di piantare “la feconda specie della vite” e di studiare con attenzione il luogo più adatto al primo germoglio delle viti e quello per il loro trasporto.
Egli dovrà segnare sulla fresca corteccia l’orientamento della piccola pianta e capire se convenga piantare la vite in collina o in pianura; nel molle campo, aggiunge, seminerà fitto, perché Bacco non sarà pigro, mentre sui colli aperti darà più spazio a filari ben allineati “affinché il sole tutti li baci e i rami si espandano liberi nel cielo…”.
Piccoli saranno i solchi cui affidare la vite, nella raggiante primavera, all’arrivo delle cicogne; i vigneti non saranno orientati al sole cadente, né gli olivi e i noccioli saranno piantati tra i filari, ma solo olmi e peschi. “Il vignaiolo adatterà canne levigate o pertiche rase o pali di frassino cui le viti possano appoggiare per resistere al vento e , quando i tralci si estenderanno rigogliosi ne stringerà la chioma, ne poterà le braccia e ne frenerà i rami traboccanti; ma finché la vite è tenera egli, con tiepida cura, eliminerà con la mano le foglie superflue, senza toccarle con la falce che il tralcio non sopporterebbe”.
Virgilio parla con amore degli umili gesti con cui la vite deve essere curata se si vuole che dia frutti buoni e abbondanti. Egli non rivendica ai vini italiani il primato assoluto : sa bene che sono più famosi i vini di Lesbo (cantati da Saffo) e che le vigne del lago Mareotide (ad ovest del Nilo) danno ottimo vino bianco e che l’uva greca Psitia è la più adatta al passito; ma egli ama il vino delle colline veronesi, anche se è più famoso il vino Falerno, in Campania, ed è più forte il vino Amineo
(forse del Piceno). Ricorda anche le uve da dessert: l’uva di Rodi, cara agli dei, o la Bumaste dai turgidi grappoli, ma rinuncia a nominarle tutte perché sono più numerose “dei granelli di sabbia del deserto libico”.
Il suo modo di esaltare il vino è quello proprio di un figlio cui il padre ha tante volte spiegato l’arte di “porre in ordine le viti” e che ama il vino in quanto frutto di tanta fatica e della capacità dell’uomo, protagonista e non solo fruitore del “nettare degli dei”.
Insomma, il testo, pur fitto di richiami tecnici ed eruditi, arriva dritto alla mente e al cuore del lettore e gli fa scoprire la sua anima contadina che, pur ammirando i grandi vini internazionali, si commuove al profumo semplice del vino della sua terra, che ridesta in lui memorie e sensazioni profonde e dimenticate.
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