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Quella scalinata dalla lunghezza incerta

01/03/2006
La chiesa della Madonna della Scala a Massafra.

Cinquecento metri a nord dell’abitato di Massafra, verso Martina Franca, al termine della suggestiva via del Santuario, una strada costruita nell’800 a mezzo tra la passeggiata mondana ed il cammino penitenziale, in uno straordinario scenario rupestre, sul fondo di una gravina che gli antichi chiamavano “vallis rosarum” (la valle delle rose) sorge la chiesa-santuario Madonna della Scala.
E’ un edificio a tre navate con volte a vela ed una facciata molto semplice, costruito da maestranze locali nei primi decenni del ‘700 (l’anno 1731 è indicato sulla facciata). Vi si accede da una maestosa scalinata settecentesca, costituita da circa 225 gradini: il “circa” è d’obbligo perché come narra una “leggenda metropolitana” e come si constata dai visitatori, i gradini non si contano mai uguali, alla discesa e alla risalita.
All’interno della chiesa, sulla parete absidale, è situata la splendida immagine della Vergine: un affresco di stile bizantino, datato all’ultimo quarto del XIII secolo, più volte ridipinto, in cui la rigidità ieratica dell’arte orientale è stemperata e addolcita dalle influenze francesi e toscane.
E’ l’icona venerata di S.Maria Prisca, che una insistente tradizione fa risalire – nella sua versione originaria – ai primi secoli del Cristianesimo, dipinta in una cappella dell’antico villaggio rupestre.
Per gli sconvolgimenti che seguirono (guerre, invasioni, terremoti, alluvioni), di essa si era persa memoria. Fu ritrovata nel fondo della gravina molti secoli dopo da alcuni cacciatori che, inseguendo delle cerve, le scorsero in preghiera davanti a un masso rovesciato contenente la sacra immagine.
Sul luogo venne eretta una piccola chiesa dedicata a S.Maria della Cerva, così detta perché – come narra la leggenda – tutti gli anni, la prima domenica di maggio, due cerve, madre e figlia, ritornano a venerare la Madonna. Esse venivano uccise (in pratica sacrificate) e le loro carni distribuite gratuitamente al popolo, che ne mangiava a sazietà. A un certo punto – continua la leggenda – i sacerdoti decisero di farsi versare un obolo per ogni pezzo di carne, una specie di ticket ante litteram, di vendere cioè le carni al popolo: da quel momento in poi le cerve non comparvero più.
La leggenda presenta molti significati socio-antropologici ed è rappresentata in una grande tela di Nicola Galeone, un pittore del secondo ‘800, conservata nel pronao del Santuario.
La Madonna, poi, assunse il titolo della Scala forse quando fu costruita la grande scalinata di accesso (ma già prima vi era, si dice, una ripida scala a pedagne scavata nella roccia).
Oppure, come afferma una dotta variante, fu così denominata per motivi squisitamente religiosi, perché la Vergine rappresenta per eccellenza la scala coeli, l’intermediazione per il Paradiso, un mezzo per sconfiggere il peccato e raggiungere la perfezione.
La Madonna della Scala è da secoli presente nelle vicende della città e nel cuore del popolo, che le è grato per la protezione concessa nelle grandi calamità, terremoti (come quello devastante del 1743), alluvioni, pestilenze, siccità, carestie, oppure durante le guerre (ricordo il corteo di donne che si formò per recarsi in processione al Santuario dopo l’annuncio alla radio dell’armistizio dell’8 settembre ’43). Il popolo, quindi, l’ha sempre considerata la sua Protettrice e nel 1776 venne alla fine riconosciuta Principalis Patrona Civitatis Massafrae. Da allora, ogni prima domenica di maggio, si svolge alle porte del paese la suggestiva cerimonia della consegna delle chiavi, da parte del Sindaco, nelle mani della Madonna.
Dal sagrato della chiesa si accede alla cripta della Buona Nuova, in cui si trova la più bella immagine della Vergine affrescata nelle chiese rupestri dell’arco jonico. E, tutt’intorno, il villaggio di grotte, che occhieggiano a centinaia sugli spalti della gravina: case di abitazione, magazzini, depositi di derrate, ricoveri per animali e, sul fondo, un’immensa caverna, la cosiddetta grotta del Ciclope, dove sono stati rinvenuti i resti di una stazione preistorica.
Il villaggio rupestre fu abitato dal paleolitico all’età angioina (XIII sec.): una trentina di anni fa, durante una campagna di scavi, fu ritrovato un “tesoretto” di monete vandaliche, che attestano la sua attività durante le invasioni barbariche, nell’alto medioevo.
Ma la gravina è ancora un luogo di misteri insoluti. Un sistema di grotte comunicanti, forse un antico cenobio, che il crollo dello spalto antistante ha reso quasi inaccessibile, contiene al suo interno alcuni ambienti singolari forniti di scaffalature regolari scavate nella roccia, che hanno fatto pensare a una “farmacia” dove un vecchio “aromatario”, il mago Greguro, e la giovane figlia Margheritella (o Cagarella) raccoglievano le erbe medicinali per curare i mali della povera gente.
Oggi gli studi più accreditati l’hanno definito un colombario oppure un antico cimitero.
Resta il fascino di una leggenda che è ancora impressa nella coscienza popolare e che la suggestione dei luoghi tende ad accreditare.
Resta l’attrazione per una chiesa sui generis, situata, piuttosto che sul cucuzzolo di un monte, sul fondo di un burrone, circondata da uno scenario rupestre unico al mondo, di incomparabile valore storico, archeologico ed ambientale.