
L'amore esclusivo e appassionato per una donna: Cinzia.
Con Tibullo ed Ovidio, Properzio è tra le voci più celebri ed intense dell’elegia latina di età augustea. Pur ruotando attorno al circolo di Mecenate, che dispiegò una grande azione di sostegno all’opera del princeps, egli mantenne una posizione di distacco rispetto ai temi civili e politici più urgenti e si dedicò essenzialmente all’amore e alla poesia. Non a caso uno studioso del valore di Antonio La Penna, tra i maggiori interpreti della sua opera, ha parlato di integrazione difficile, nel senso che, scarsamente interessato alle tematiche politiche, Properzio si adeguò a fatica o, meglio, con poca convinzione al programma politico-culturale dell’imperatore.
Nato probabilmente ad Assisi tra il 50 ed il 48 a. C. da una famiglia benestante, si trovò a vivere nel periodo più turbinoso della vita pubblica romana, che va dallo scoppio della guerra civile (49 a. C.) sino alla battaglia di Azio (31 a. C), sicché la sua giovinezza fu segnata da quel clima di odio e di guerra che devastò il territorio italico. In particolare, la sua famiglia fu coinvolta nella cosiddetta guerra di Perugia (41 - 40 a. C.), di cui il poeta ricorderà sempre i lutti e le desolazioni, ed ebbe a soffrire i danni delle confische di terre che molti subirono dopo la battaglia di Filippi. Morto il padre quando aveva appena sedici anni, ormai in condizioni disagiate, Sesto Properzio si trasferì a Roma, dove tentò la carriera forense e politica, ma senza successo, in quanto la sua vocazione era squisitamente letteraria. Qui si innamorò di una donna, un po’ più grande di lui, Cinzia, che costituì l’oggetto principale della sua passione amorosa e della sua poesia. Dopo aver pubblicato nel 28 a. C. il primo libro delle elegie, ispirato a Cinzia, e riscosso notevole successo, fu introdotto nel circolo di Mecenate : qui ebbe modo di conoscere Tibullo, Ovidio e lo stesso Virgilio, del quale annunciò l’imminente pubblicazione dell’Eneide. Morì giovane, intorno al 16 a. C., perciò a 35 anni, più o meno alla stessa età di Catullo e Tibullo.
Il nome di Sesto Properzio è legato essenzialmente al libro delle Elegie, in quattro libri, in cui campeggia l’amore per Cinzia, un amore direi esclusivo, dall’esito purtroppo poco fortunato, in quanto il poeta, dopo una relazione tanto intensa quanto burrascosa durata cinque anni, è costretto dagli eventi a mettere la parola fine. Una storia per certi versi simile a quella di Catullo e della donna amata, Lesbia.
Properzio racconta questa storia d’amore nell’arco dei primi tre libri, mentre nel quarto, le cosiddette elegie romane, si diffonde soprattutto su temi civili ripercorrendo i miti dell’antica Roma, secondo gli intendimenti del circolo di Mecenate, che propugna un tipo di poesia ‘impegnata’ sul piano politico-culturale.
Cinzia, principio e fine delle elegie properziane, centro motore dei sentimenti e delle emozioni del poeta, è cantata con un’intensità affettiva che ha pochi eguali nella lirica latina, tanto che farà dire a Properzio: Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit; lei fu infatti la prima donna a conquistarlo con il suo fascino e il suo sguardo, Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis; e sempre lei fu tutto per il poeta, famiglia, parenti, casa : tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes.
Ma non si pensi che Properzio, pur aderendo ad una materia sentimentale così calda ed appassionata, abbia composto le sue elegie in una forma semplice, prosaica.
Anzi, imbevuto di una profonda cultura, quella alessandrina, si rifà al magistero di Callimaco e di Filita e compone nel rispetto di quelli che erano i canoni della poetica callimachea: dottrina, erudizione, mitologia, eleganza metrica e formale, levigatezza.
Sicché la sua opera si mantiene sul filo del difficile equilibrio tra autobiografia e letteratura; con ciò si vuol dire che, se non mancano le tracce autobiografiche nel suo libro, esse sono spesso coperte o mascherate dal tessuto letterario; perciò, la vicenda sentimentale si dipana tra spontaneità ed artificio, tra richiami oggettivi e riferimenti colti, tra ingenium e doctrina.
La relazione con Cinzia, come ci racconta lo stesso poeta, durò cinque anni; alla prima fase caratterizzata dall’ardore e dalla passione succedettero delusioni infedeltà, lunghe pause, riprese; gradatamente l’amore si attenuò e rimase vivo solo nell’aspirazione e nel ricordo, finché Properzio diede un addio definitivo alla sua donna e al tormento d’amore. Cinzia dopo il distacco morì e la sua morte offrì al poeta spunto per una trasfigurazione mitica del ricordo.
Come buona parte delle storie d’amore, trasmesseci dall’antichità, anche questa fu caratterizzata, oltre che dalla passione, da tensioni, affanni, insomma da una altalena di sentimenti, tanto più che Cinzia era una donna colta, volubile, spregiudicata e sensuale e, forse per questo, capace di sedurre e tenere sotto scacco il suo uomo; e quando il poeta vuole medicare, o almeno mitigare, gli affanni non ha altra strada che quella che porta al dio Bacco. Se il dio, infatti, lo aiuterà a liberarsi di Cinzia, divenuta fonte di dolore e di tormenti, egli promette solennemente di cantare le sue imprese e di essere cultore della vite. In questa ottica il vino svolge la funzione di remedium amoris: infatti così esclama il poeta : “Tu puoi frenare la folle superbia di Venere e nel tuo vino è il rimedio agli affanni. Tu gli amanti unisci e dividi: da questo male scioglimi, o Bacco.” (III, 17, 3-4) e, poco più avanti, conferma questa convinzione : “il male che conserva nelle mie ossa l’antica fiamma, soltanto la morte o il tuo vino potranno sanarlo…” (III, 17, 8-9).
Ma non sempre era stato così; giacché, nei primi tempi, grande era stata la passione, in virtù della quale aveva provato gelosia per Cinzia, decisa a seguire in Illiria un altro uomo, là chiamato per incarichi politico-militari; e quando la donna rinunciò a tale progetto palesandogli sincero attaccamento, a Properzio sembrò di toccare il cielo con un dito. Non mancò il poeta di decantarne la bellezza fisica, il colore degli occhi, lo splendore del viso e dei capelli, l’eleganza delle movenze… Intensa, oltre che memorabile, è ad es. la scena in cui il poeta, ebbro di vino, torna in piena notte a casa di Cinzia e l’ammira mentre dorme quieta nel suo letto, le si sdraia accanto, con delicatezza le passa il braccio sotto il collo, in modo quasi impercettibile la sfiora di baci, immobile la guarda fisso mentre lei un pochino trasale nei movimenti del sonno e del sogno, e le scioglie dalla fronte le piccole corone di fiori, e gli manca il coraggio di turbare il suo sonno, e si diverte a comporre con le dita i suoi capelli spettinati sul cuscino e aspetta, aspetta…Fino a che la luna, filtrando dalla finestra aperta, la luna frettolosa che volentieri avrebbe trattenuto la sua luce per non disturbare la bella dormiente, con raggi leggeri le apre gli occhi assopiti (compositos levibus radiis patefecit ocellos…I, 3).
Non mancano poi, all’interno di questa storia d’amore, episodi in cui il poeta si lascia andare ad incontri mercenari con cortigiane: in queste occasioni il vino adempie all’officium di allietare e rendere frizzante la serata, di eccitare gli animi, di favorire l’evasione in un mondo di gioiosa e spensierata libertà.
Nell’incontro andato a male con Fillide e Teia ad es. egli non manca di attingere vino greco di Lesbo dal coppiere Ligdamo e di descrivere così le due amanti: “Vi è una certa Fillide che abita vicino al tempio di Diana Aventina : se non beve è restia, ma se beve si presta a tutto”; “Teia, che frequenta i boschi tarpei, splendida, ma da ebbra un solo uomo non le basta…” (IV, 8, 30-32 trad. Luisi). Senonché, nel bel mezzo delle schermaglie amorose, all’improvviso appare Cinzia, bella nella sua rabbia, che si scaglia contro le due ragazze e affonda le unghie affilate nel loro volto, come se stesse per prendere un’intera città. Il poeta lascia cadere la coppa di vino che reggeva, mentre le labbra sbiancano: “La coppa mi sfuggì dalle dita incapaci di stringerla, e mi si sbiancarono le labbra ancora bagnate di vino…” (IV. 8, 53-54, trad. Luisi). Del resto, mi verrebbe da commentare, nessuno sa incerta quo fata ferant (“dove ci conduce l’incerta sorte”).
Con Tibullo ed Ovidio, Properzio è tra le voci più celebri ed intense dell’elegia latina di età augustea. Pur ruotando attorno al circolo di Mecenate, che dispiegò una grande azione di sostegno all’opera del princeps, egli mantenne una posizione di distacco rispetto ai temi civili e politici più urgenti e si dedicò essenzialmente all’amore e alla poesia. Non a caso uno studioso del valore di Antonio La Penna, tra i maggiori interpreti della sua opera, ha parlato di integrazione difficile, nel senso che, scarsamente interessato alle tematiche politiche, Properzio si adeguò a fatica o, meglio, con poca convinzione al programma politico-culturale dell’imperatore.
Nato probabilmente ad Assisi tra il 50 ed il 48 a. C. da una famiglia benestante, si trovò a vivere nel periodo più turbinoso della vita pubblica romana, che va dallo scoppio della guerra civile (49 a. C.) sino alla battaglia di Azio (31 a. C), sicché la sua giovinezza fu segnata da quel clima di odio e di guerra che devastò il territorio italico. In particolare, la sua famiglia fu coinvolta nella cosiddetta guerra di Perugia (41 - 40 a. C.), di cui il poeta ricorderà sempre i lutti e le desolazioni, ed ebbe a soffrire i danni delle confische di terre che molti subirono dopo la battaglia di Filippi. Morto il padre quando aveva appena sedici anni, ormai in condizioni disagiate, Sesto Properzio si trasferì a Roma, dove tentò la carriera forense e politica, ma senza successo, in quanto la sua vocazione era squisitamente letteraria. Qui si innamorò di una donna, un po’ più grande di lui, Cinzia, che costituì l’oggetto principale della sua passione amorosa e della sua poesia. Dopo aver pubblicato nel 28 a. C. il primo libro delle elegie, ispirato a Cinzia, e riscosso notevole successo, fu introdotto nel circolo di Mecenate : qui ebbe modo di conoscere Tibullo, Ovidio e lo stesso Virgilio, del quale annunciò l’imminente pubblicazione dell’Eneide. Morì giovane, intorno al 16 a. C., perciò a 35 anni, più o meno alla stessa età di Catullo e Tibullo.
Il nome di Sesto Properzio è legato essenzialmente al libro delle Elegie, in quattro libri, in cui campeggia l’amore per Cinzia, un amore direi esclusivo, dall’esito purtroppo poco fortunato, in quanto il poeta, dopo una relazione tanto intensa quanto burrascosa durata cinque anni, è costretto dagli eventi a mettere la parola fine. Una storia per certi versi simile a quella di Catullo e della donna amata, Lesbia.
Properzio racconta questa storia d’amore nell’arco dei primi tre libri, mentre nel quarto, le cosiddette elegie romane, si diffonde soprattutto su temi civili ripercorrendo i miti dell’antica Roma, secondo gli intendimenti del circolo di Mecenate, che propugna un tipo di poesia ‘impegnata’ sul piano politico-culturale.
Cinzia, principio e fine delle elegie properziane, centro motore dei sentimenti e delle emozioni del poeta, è cantata con un’intensità affettiva che ha pochi eguali nella lirica latina, tanto che farà dire a Properzio: Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit; lei fu infatti la prima donna a conquistarlo con il suo fascino e il suo sguardo, Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis; e sempre lei fu tutto per il poeta, famiglia, parenti, casa : tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes.
Ma non si pensi che Properzio, pur aderendo ad una materia sentimentale così calda ed appassionata, abbia composto le sue elegie in una forma semplice, prosaica.
Anzi, imbevuto di una profonda cultura, quella alessandrina, si rifà al magistero di Callimaco e di Filita e compone nel rispetto di quelli che erano i canoni della poetica callimachea: dottrina, erudizione, mitologia, eleganza metrica e formale, levigatezza.
Sicché la sua opera si mantiene sul filo del difficile equilibrio tra autobiografia e letteratura; con ciò si vuol dire che, se non mancano le tracce autobiografiche nel suo libro, esse sono spesso coperte o mascherate dal tessuto letterario; perciò, la vicenda sentimentale si dipana tra spontaneità ed artificio, tra richiami oggettivi e riferimenti colti, tra ingenium e doctrina.
La relazione con Cinzia, come ci racconta lo stesso poeta, durò cinque anni; alla prima fase caratterizzata dall’ardore e dalla passione succedettero delusioni infedeltà, lunghe pause, riprese; gradatamente l’amore si attenuò e rimase vivo solo nell’aspirazione e nel ricordo, finché Properzio diede un addio definitivo alla sua donna e al tormento d’amore. Cinzia dopo il distacco morì e la sua morte offrì al poeta spunto per una trasfigurazione mitica del ricordo.
Come buona parte delle storie d’amore, trasmesseci dall’antichità, anche questa fu caratterizzata, oltre che dalla passione, da tensioni, affanni, insomma da una altalena di sentimenti, tanto più che Cinzia era una donna colta, volubile, spregiudicata e sensuale e, forse per questo, capace di sedurre e tenere sotto scacco il suo uomo; e quando il poeta vuole medicare, o almeno mitigare, gli affanni non ha altra strada che quella che porta al dio Bacco. Se il dio, infatti, lo aiuterà a liberarsi di Cinzia, divenuta fonte di dolore e di tormenti, egli promette solennemente di cantare le sue imprese e di essere cultore della vite. In questa ottica il vino svolge la funzione di remedium amoris: infatti così esclama il poeta : “Tu puoi frenare la folle superbia di Venere e nel tuo vino è il rimedio agli affanni. Tu gli amanti unisci e dividi: da questo male scioglimi, o Bacco.” (III, 17, 3-4) e, poco più avanti, conferma questa convinzione : “il male che conserva nelle mie ossa l’antica fiamma, soltanto la morte o il tuo vino potranno sanarlo…” (III, 17, 8-9).
Ma non sempre era stato così; giacché, nei primi tempi, grande era stata la passione, in virtù della quale aveva provato gelosia per Cinzia, decisa a seguire in Illiria un altro uomo, là chiamato per incarichi politico-militari; e quando la donna rinunciò a tale progetto palesandogli sincero attaccamento, a Properzio sembrò di toccare il cielo con un dito. Non mancò il poeta di decantarne la bellezza fisica, il colore degli occhi, lo splendore del viso e dei capelli, l’eleganza delle movenze… Intensa, oltre che memorabile, è ad es. la scena in cui il poeta, ebbro di vino, torna in piena notte a casa di Cinzia e l’ammira mentre dorme quieta nel suo letto, le si sdraia accanto, con delicatezza le passa il braccio sotto il collo, in modo quasi impercettibile la sfiora di baci, immobile la guarda fisso mentre lei un pochino trasale nei movimenti del sonno e del sogno, e le scioglie dalla fronte le piccole corone di fiori, e gli manca il coraggio di turbare il suo sonno, e si diverte a comporre con le dita i suoi capelli spettinati sul cuscino e aspetta, aspetta…Fino a che la luna, filtrando dalla finestra aperta, la luna frettolosa che volentieri avrebbe trattenuto la sua luce per non disturbare la bella dormiente, con raggi leggeri le apre gli occhi assopiti (compositos levibus radiis patefecit ocellos…I, 3).
Non mancano poi, all’interno di questa storia d’amore, episodi in cui il poeta si lascia andare ad incontri mercenari con cortigiane: in queste occasioni il vino adempie all’officium di allietare e rendere frizzante la serata, di eccitare gli animi, di favorire l’evasione in un mondo di gioiosa e spensierata libertà.
Nell’incontro andato a male con Fillide e Teia ad es. egli non manca di attingere vino greco di Lesbo dal coppiere Ligdamo e di descrivere così le due amanti: “Vi è una certa Fillide che abita vicino al tempio di Diana Aventina : se non beve è restia, ma se beve si presta a tutto”; “Teia, che frequenta i boschi tarpei, splendida, ma da ebbra un solo uomo non le basta…” (IV, 8, 30-32 trad. Luisi). Senonché, nel bel mezzo delle schermaglie amorose, all’improvviso appare Cinzia, bella nella sua rabbia, che si scaglia contro le due ragazze e affonda le unghie affilate nel loro volto, come se stesse per prendere un’intera città. Il poeta lascia cadere la coppa di vino che reggeva, mentre le labbra sbiancano: “La coppa mi sfuggì dalle dita incapaci di stringerla, e mi si sbiancarono le labbra ancora bagnate di vino…” (IV. 8, 53-54, trad. Luisi). Del resto, mi verrebbe da commentare, nessuno sa incerta quo fata ferant (“dove ci conduce l’incerta sorte”).
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