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Orazio di Venosa

01/07/2008
Il maggior cantore del vino di tutta la Latinità

In un carme dedicato all’amico Quintilio Varo (Carm. I, 18) Orazio dichiara la sua devozione per il dio Bacco del quale onora i riti sacri e gli insegnamenti volti al rispetto della moderazione, non senza sottolineare il personale attaccamento alla pianta della vite:
“O Varo, nella dolce campagna di Tivoli e presso le mura di Càtilo (fondatore insieme ai fratelli Tiburto e Corace della città) non piantare alcun albero prima della sacra vite. Il dio (Bacco) infatti rende difficili tutte le cose agli astemi; né in altro modo, scompaiono i tormentosi affanni. Chi mai, dopo aver bevuto, blatera delle noie del servizio militare o della povertà? Chi piuttosto non celebra te, o padre Bacco, e te Venere bella? Tuttavia, la rissa fra Centauri e Làpiti scoppiata tra fiumi di vino, ammonisce a che nessuno oltrepassi i limiti di un Libero (cioè Bacco) moderato ; e lo stesso Evio (altro sinonimo di Bacco) ostile ai Traci ci ammonisce, allorché quelli, avidi di piaceri, distinguono il lecito dall’illecito con un sottile filo…”

Che Orazio sia un intenditore di vini è risaputo e la lettura dei suoi testi resta per noi una fonte preziosa per conoscere la vasta gamma dei vini italici e la loro qualità in una scala di valori presumibilmente condivisa dai più. Inoltre bisogna osservare che, di fronte alla invadenza dei vini greci, considerati di livello superiore e ricercati dagli aristocratici per la loro raffinatezza, il venosino difende la bontà dei nostri vini con uno spirito di sano nazionalismo. Un componimento dedicato all’amico e patrono Mecenate, braccio destro di Ottaviano Augusto (Carm. I, 20), nel mettere in evidenza in occasione di un invito la modestia dei mezzi personali rispetto a quelli dell’illustre e facoltoso ospite, ci ragguaglia su alcuni dei più apprezzati vini del tempo : il Cècubo, il Falerno ed il Formiano.
“Berrai in tazze di poco pregio il modesto vino della Sabina, che io stesso ho sigillato con pece in un’anfora greca, o caro cavaliere Mecenate, quando a teatro ti fu tributato un tale applauso che le rive del paterno fiume (cioè il Tevere) e la scherzosa Eco del monte Vaticano ripeterono ad una voce le tue lodi. Tu bevi di solito il Cècubo e il vino spremu to da torchio caleno (si tratta di Calvi in Campania). Purtroppo né le viti di Falerno né i colli di Formia alimentano i miei bicchieri”. Il Cècubo e il Falerno sono tra i vini maggiormente celebrati da Orazio, tant’è vero che lo stesso Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (libro XIV), nel redigere una sorta di gra- duatoria dei vini di casa nostra, mette al primo posto il Cècubo e al secondo il Falerno, en- trambi prodotti nell’ager Campanus.
Quando nel 30 a.C. si trattò di celebrare la fine di Cleopatra, che aveva suscitato in Roma non poche apprensioni, e di innalzare un canto di gioia, Orazio così si esprime (Carm. 1, 37): “Nunc est bibendum…E’ ora di bere, è ora di danzare con ritmo sfrenato. Era tempo, amici, che si imbandisse il banchetto di ringraziamento agli Dei con vivande degne dei sacerdoti Salii! Prima d’ora non era lecito prelevare il Cècubo dalle avite cantine, finché una regina (cioè Cleopatra) preparava folli rovine per il Campidoglio e la distruzione del nostro impero…”.
In un’altra ode, altrettanto famosa, attraversata dal senso di provvisorietà della vita e degli agi faticosamente conquistati e dalla triste consapevolezza dell’ineluttabilità dell’ultimo passo, Orazio invita l’amico Pòstumo ad affrontare il presente con saggezza e disincanto (Carm. 2, 14) : “Ahimé, Postumo, Postumo, gli anni fuggono veloci, e non c’è fede religiosa che possa porre un freno alle rughe e all’incalzante vecchiaia, neppure se con trecento tori (quanti sono i giorni dell’anno) tentassi di placare, amico, l’inflessibile Plutone…Invano ci terremo lontani dal sanguinoso Marte e dalle onde impetuose del rumoreggiante Adriatico; invano, nelle stagioni autunnali, cercheremo di ripararci dall’Austro (lo scirocco) che nuoce alla salute! Dovremo purtroppo vedere il nero Cocito (il fiume infernale), che serpeggia con il suo corso sonnolento, e la famigerata stirpe di Dànao, e l’eolide Sìsifo, condannato all’eterna fatica. Dovremo lasciare la terra e la diletta sposa. Nessuna di queste piante, che tu ora coltivi, nessuna seguirà te, padrone effimero, se non il lugubre cipresso. Un erede più degno di te consumerà le anfore di Cècubo, custodite sotto cento chiavi, e tingerà il pavimento del tuo superbo vino , migliore di quello usato nelle cene dei pontefici”.
Un significativo cenno al Falerno è nell’ode a Quinto Dellio (Carm. 2, 3), in cui Orazio ancora una volta, richiamandosi ad Archiloco (128 W), insiste sul motivo della moderazione e della saggezza di fronte alle alterne vicende della vita : “Ricordati, o Dellio, di conservare l’animo sereno nelle avversità e, del pari, lontano da smodata gioia nella propizia fortuna : anche tu sei destinato a morire, sia che tu abbia trascorso tutta la vita nella tristezza, sia che, adagiato su un prato appartato, tutti i giorni festivi ti sia goduto il Falerno contrassegnato dal biglietto più interno (della cantina)…Dovrai lasciare i poderi via via acquistati; dovrai lasciare il palazzo e la villa, che il biondo Tevere lambisce; e l’erede si impadronirà delle ricchezze che hai accatastato! Sia tu ricco, discendente dell’antico Inaco, sia povero, nato da infima famiglia, costretto a vivere sotto il cielo, nulla importa: sarai preda dell’Orco, che di nulla ha pietà”.
Un altro vino italico, sempre prodotto in Campania e citato da Orazio (carm. 2, 7), è il Màssico, con il quale il poeta invita il vecchio compagno d’armi Pompeo Varo a dimentica- re gli affanni e le noie militari: “O Pompeo, tu come me fosti spesso sospinto al pericolo estremo, quando militavamo nelle legioni di Bruto. Chi ti ha restituito, quale cittadino, agli dèi Penati della patria e al cielo italico, te, il più caro dei miei commilitoni, colui con il quale tante volte ho abbreviato le interminabili giornate bevendo vino e inghir- lando i rilucenti capelli con il malòbrato (una pianta dalla quale si ricavava un famoso profumo) di Siria ?... Pertanto, appresta a Giove il dovuto banchetto di ringraziamento e adagia il tuo corpo affaticato dal lungo servizio militare sotto il mio alloro; non rispar- miare le anfore serbate per te. Riempi i lucidi calici del Màssico oblioso; versa i profumi dagli ampi vasi ! chi si incarica di preparare ghirlande di fresco apio o di mirto? Chi sarà scelto da Venere quale re del convito ? io festeggerò Bacco non meno degli Edòni (popo- lo trace beone); mi è dolce folleggiare perché ho ritrovato l’amico!” Infine, in una delle più belle odi oraziane, dedicata all’amico Settimio (Carm. 2, 6), il poeta dichiara il suo amore per Taranto e il suo territorio, tanto che vorrebbe finire qui i suoi giorni, e la decanta per la mitezza del clima, la qualità del miele, delle olive e del vino : il celebrato Aulon, di cui ancora si perpetua il nome nei vini di Pulsano.
Un’ode considerata perfetta da tutti gli studiosi per il mirabile equilibrio sentimentale, tonale e stilistico e per la raccolta musicalità: “Se le avverse Parche mi terranno lontano da qui (cioè da Tivoli), mi avvierò verso il fiume Galeso, delizia delle lanute greggi, e verso le campagne su cui regnò lo spartano Fàlanto. Quell’angolo di terra mi sorride più di ogni altro: qui il miele è pari a quello dell’Imetto (si tratta del famoso miele dell’Attica), e le olive gareggiano con quelle della verdeggiante Venafro; qui Giove concede una lunga primavera e miti inverni, e le uve dell’Aulon, caro a Bacco che lo feconda, non hanno nulla da invidiare a quelle del Falerno. Quel luogo e quelle amene colline ci chiamano entrambi; qui verserai una lacrima sulle ceneri ancora calde dell’amico poeta”.
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