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Note a Margine - Alceo Novembre 2009

01/11/2009
Un amico settentrionale si è assai stupito, un mese fa, del fatto che per tornare a casa avessi prenotato, da Milano, un Eurostar piuttosto che un aereo. Era per via della per lui incredibile e intollerabile quantità di ore che occorrono per attraversare lo Stivale. «Adesso è un viaggio confortevole e breve», ho replicato, «vent’anni fa invece che nove, ti toccava restare in treno anche quindici ore». L’amico ha indugiato nella sua perplessità,ma noimeridionali siamo abituati a queste lunghissime traversate, non ci spaventano, fanno parte della nostra identità, come usa dire.
Gli stessi Sud Sound System esordirono con un pezzo che faceva «partono i treni carichi da Lecce, nella valigia lacrime e amarezze». E di recente Mario Perrotta ha scritto un fortunato radiodramma, poi riversato in volume, dal titolo «Emigranti Esprèss» che narra di ricotte, peperoni, provole, armoniche a bocca e calzini puzzolenti che caratterizzavano i viaggi dal capoluogo salentino verso il Continente.

Ho anch’io una lunghissima esperienza di utente ferroviario lungo tratte interminabili.
Negli Ottanta i ragazzi viaggiavano di notte, e la cuccetta era un lusso per pochissimi. Entravi lì, stendevi i sedili, ti levavi le scarpe e restavi narcotizzato per dodici ore da un odore che era un misto fra sciallini e giacche di grisaglia intrisi di naftalina, panini con la mortadella sgranocchiati praticamente al buio, fumo di sigarette che s’infilava tutte le volte che il controllore apriva il pollaio per controllare il biglietto. Non c’era una vera comunicazione fra i passeggeri.
Ognuno era immerso nei suoi pensieri, desideroso di raggiungere presto la meta e dimenticare gli occhi sgranati della vecchia cicciona che t’aveva infilato il gomito nelle costole per tutta la notte. Finché non arrivarono gli Intercity con i loro cunicoli da sei posti. Lì den- tro, mentre l’Adriatico piatto e limaccioso ti sfilava dal finestrino, andava in scena l’intero arco parlamentare. Al fine di scansare l’inevitabile attaccabottone che per ore e ore era in grado di intrattenere i sei deportati intorno ad argomenti quali «gli sbocchi lavorativi del laureato in scienze bancarie» oppure «le nuove tecniche di coibentazione dei garage per imbarcazioni»: ognuno si barricava dietro al suo giornale o alla sua rivista. C’era di tutto.
Da Cronaca vera a Oggi a l’Espresso a Repubblica al Secolo XIX a certe pubblicazioni umoristiche dal titolo «Bollettino dell’Associazione Atei» o «Notiziario dei bolscevichi trotzkisti» o anche «Amici della Madonna del Carmelo». Tu osservavi cosa leggevano e passavi il tempo immaginandoti quali vite, quali storie ci nascondessero dietro quei periodici e se qualcuno si fosse avventurato a fare conversazione, tu gli avresti risposto in inglese che davvero mi scusi non capisco un’acca di quel che dice.
Ad ogni modo, dall’osservatorio del traversatore ferroviario seriale negli anni Ottanta, posso affermare senza tema di smentita che gli italiani dell’epoca non leggevano libri. Ho visto comparirne nei Novanta. Sempre di più. Sempre di miglior qualità e, soprattutto, in mano ai ragazzi che andavano a stu- diare nelle città del Nord. Non più l’isolato libretto rosa o giallo in mano agli impiegati in pensione.

Passavano gli anni e i ragazzi tiravano fuori edizioni Adelphi, Einaudi, Sellerio, raffinati romanzi russo-americani, autori di culto francesi. Era un piacere scoprire che gli allora studenti che oggi hanno intorno ai trent’anni avessero scoperto il piacere della lettura.
Una volta ho guardato l’Italia seduto a fianco aun occhialuto catanzarese che leggeva Il Capitale in versione integrale mentre di fronte a noi due signorine tarantine avevano rispettivamente fra le mani un Dovlatov Sergej e un genuino Jane Austen in edizione Rizzoli Universale (roba da farmi vergognare del mio plebeo Pennac). Andavo su e giù per i vagoni, pazzo di gioia. Libri dappertutto.
Studenti e trolley e panini e bibite e romanzi d’ogni epoca e latitudine. È durato fino all’avvento del laptop. Intorno al 2002 o 2003 ce n’erano un paio per ogni vagone, e chi lo teneva acceso ci lavorava alacremente. Chiunque oggi metta piede su un Eurostar scopre l’orrore per il vuoto che ha preso non solo i ragazzi ma pure i quarantenni, i cinquantenni giù giù fino ai settantenni. È raro trovare qualcuno che non disponga di almeno un pc portatile - ma di solito l’attrezzatura di base del viaggiatore italiano è: iPod, palmare o mini pc, telefonino oppure un aggeggio che contenga tutt’e tre questi ordigni.
Niente più libri, rari i giornali. Cosa fanno gli italiani in treno? Nessuno chiacchiera più con gli sconosciuti. Tutti sono invece impegnati a ciangottare per dieci ore su quelle macchinette diaboliche che sono Facebook o Twitter e simili. Cosa faccio, farò, ho fatto, ho intenzione di fare, cosa mi piace, cosa non mi piace, cosa dice la Sandra, cosa dice la Carla, cosa gli ha risposto Osvaldo, come l’ha presa Nicola, facciamo un gruppo per osteggiare Riccardo, un altro per sostenere Genepieve. Esseri umani a centinaia inabissati in questa comunicazione senza fine che prosegue con gli sms se si scarica la batteria del laptop.

Nessun italiano sostiene più quel leggero stacco, quella vagamente inquietante e depersonalizzante ma anche liberatoria separazione dal tran tran per ficcarsi per qualche ora in non-luoghi che potrebbero indurti alla riflessione se non alla meditazione oppure al godimento infinito che può procurarti quell’altro affascinante viaggio rappresentato dalla lettura di un romanzo. In sette-otto anni una virtuosa tendenza che pareva in espansione è stata letteralmente spazzata via dall’avvento di queste tecnologie che permettono la Riunione Di Condominio Permanente, un agghiacciante, e solipsistico, masturbatorio, incubo da Reality Show Perpetuo.
Quando ti capita di incrociare un uomo tedesco sulla trentina (in Germania i trentenni son uomini a tutti gli effetti e non poveri figghiuzzi implumi cui riempire la valigia di salumi e parmigiane) il quale stia leggendo non solo un libro, ma anche un libro d’autore: ecco, ti verrebbe di abbracciarlo, di scendere con lui a Milano e seguirlo fino alle brume di Colonia, e colà restare e dimenticarsi di questo Paese del tutto ammattito.