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Note a margine - Alceo Marzo 2009

01/03/2009
Tempo fa mi ha colpito la riflessione di una mamma intorno alla cinquantina. Al cospetto del fenomeno che vedeva allontanarsi uno dopo l’altro i figli, verso gli studi universitari e, poi, verso il lavoro: lei chiosava che tocca adattarsi a questa «cosa innaturale, ché la naturalità sarebbe di tenerseli vicinissimi». Ma che cosa è davvero naturale, alla fine? Intestardirsi masochisticamente a vivere in un posto senza alcuna prospettiva esistenziale e professionale oppure andare a cercare la propria strada lì dove le condizioni ambientali permettono la realizzazione delle proprie aspirazioni? Mi è capitato recentemente di intrattenere un’intensa frequentazione con centinaia e centinaia di ragazzi italiani che,come tutti, hanno un “profilo” su Facebook. Tralascio i motivi per cui ho deciso di abbandonare quel mezzo sorprendente. Già la galassia dei blog mi aveva offerto più  di uno spunto su cui meditare. Ma è in Facebook che tocchi con mano la sacrosanta verità: i ragazzi fra i venticinque e i trentadue o trentatré anni, oggi, il quesito dilaniante che ha afflitto i miei coetanei - se tornare o meno- non se lo son proprio mai posto.

Noi cresciuti negli anni Ottanta siamo uomini e donne dalle idee piuttosto confuse. Con uno Spirito del Tempo che prescriveva unicamente studi economici e carriere nella finanza: partimmo in massa alla conquista della Borsa e tornammo sgangheratamente con lavori quali cameraman, autista di cisterna di bitume, scultore della pietra leccese, marinaio, gestore di videoteca. Ebbene, questo dilemma per chi è nato nel 1980 non esiste proprio. Magari hanno studiato al sud. Nessuno di loro ha vissuto come catastroficamente indifferibile lo spostarsi in una grande città del nord. Eravamo noi, quelli che volevano andare a provare la vita spericolata.
Loro no. Loro hanno avuto sottomano ogni intrattenimento e possibilità di consumo culturale immaginabile. Soprattutto: loro son cresciuti non guardando al Mondo attraverso le pagine dei grandi giornali e i filtri degli opinionleaders. Per loro il mondo è stato da subito a portata di click, subito dietro lo schermo di internet, subito dietro il gate di un volo low cost della durata di un’ora. Loro, prendono lo zaino e se ne vanno. Sei mesi a Utrecht, un anno a Milano, tre mesi a Barcellona, un altro anno a Glasgow. Si spostano dentro l’Europa come noi ci spostavamo fra le città del Nord  Italia.

Un paio d’anni fa, in un locale di Londra, sembrava di stare a Bologna nel 1988. Nelle osterie della Vecchia Signora potevi ascoltare tutti gli accenti italiani disponibili. Al Mama Jo Jo si parlava inglese ma un ventenne era cipriota, un altro ateniese, un altro siciliano, e irlandesi portoghesi turchi francesi. Cittadini di un’unica grande nazione che è ormai l’Europa. Vai nei loro blog e scopri che solo due mesi prima guardavano il Tamigi dalla finestra della City e spostavano miliardi da un paese arabo all’India. Ora si son trasferiti nelle Fiandre dove collaborano a un progetto di cooperazione internazionale - neppure sospettando quella che noi definiremmo una “contraddizione ideologica” presente dentro questo cambio di prospettiva. Non mostrano alcuna nostalgia per la terra fiorita  e non sono sfiorati dalle lagne sulle radici e sul sole. Comprano biciclette usate e galoche e scorrazzano per il Belgio con la pioggia torrenziale che li innaffia mentre la mamma, a casa, non ti farebbe uscire con un po’ di acquerugiola se non munito di Lancia Y climatizzata. E continuano a studiare tanto e volentieri, se glielo si lascia fare. Invece di mettersi in fila dagli orrendi baronetti locali: loro, i venti-trentenni, semplicemente fanno una domanda on line e dopo una settimana vengono accolti a Parigi a fare un dottorato.


Cos’altro potrebbero fare? Scotennarsi l’anima dietro allo sciocchezzaio nazionale, continuare a vivere con i genitori e aspettare il concorso alla Regione con quindicimila partecipanti? Abbiamo tutto da imparare, noi, da questi ragazzi. Da Raffaele che fa il veterinario ad Amsterdam e legge Tolstoj e da Massimiliano che studia glottologia a Tokyo e sta per trasferirsi nell’Arkansas. Da Anna che sta nell’ufficio stampa della Procter & Gamble di Copenhagen e da Annalisa che ha aperto una bottega di pupazzi di stoffa a Islington, Londra. L’uomo ha sempre migrato. Quando la cultura cui appartiene comincia a declinare, o semplicemente quando non c’è più una lira oppure si possiede la lucidità di vivere come “innaturale” la convivenza con i genitori che ti passano la paghetta dopo i venticinque anni: l’uomo e, grazie al Cielo, la donna vanno via. Partitevene ragazzi, finché siete in tempo. Noi continueremo a sorbirci le notti della taranta e le focare e le delizie “identitarie” ma sappiamo già che non è il caso che neppure ve ne informiamo, tramite Skype o le meraviglie tecnologiche che verranno. Voi alzereste le spalle, ci indirizzereste un sorriso di circostanza, poi vi avviereste disinvolti a mangiare le quaglie dall’amico pakistano all’angolo fra rue Borsbeek e Hemiksem avenue a Bruxelles.