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Note a Margine - Alceo Marzo 2006

01/03/2006
Fra una ventina d’anni i vecchi saranno di gran lunga di più rispetto alla popolazione in età lavorativa. Un incubo, se ci si riflette un attimo. Senza scomodare le gravissime questioni previdenziali (chi manterrà questa torma di arzilli bacucchi, chi comprerà loro il Viagra e finanzierà i viaggi intercontinentali?). Ammesso a loro volta riescano a scovare qualcuno che paghi loro, i nostri figli lavoreranno per permettere a stuoli di ottantenni di bighellonare per le città con aria vanitosa e petulante. Ché è ora di dire basta all’oleografia del bravo vecchietto saggio e generoso. Gli anziani son diventati delle carogne, parliamoci chiaro. L’altra mattina avevo la mia solita gran fretta. Per strada queste anziane col rossetto e questi settantenni che hanno imparato a leggere il Corriere della Sera. Erano praticamente disposti a scacchiera. Era un viale piuttosto ampio, con marciapiedi larghi sei o sette metri. Loro, rigorosamente a coppie, ciondolavano per la via e in ordine sparso. Ho visto la signora davanti a me inchiodare la Renault dinanzi a due centenarie elegantissime. Io stesso mi son ritrovato a fare la gimcana fra i vecchi, circumnavigandoli ed evitandoli come si evita una bandierina nei test di guida. Non posso credere che siano tutti talmente sordi da non sentire che stanno passando delle civile automobili. È che se ne fregano. Hanno quest’aria beota e beata si chi ha fatto tante cose e adesso se la gode con le chiacchiere su Berlusconi prendendo a spunto un fondo di Panebianco. Tu già devi sbrigare ottomila faccende e avresti bisogno di trentasei ore al giorno in più rispetto alle ventiquattro assegnateti. Vai nei negozi e trovi questi smorfiosi col bastone che assaggiano il grana, lo deglutiscono piano. E dopo che il pizzicagnolo l’ha grattuggiato si ricordano che era gavoi, quello che gli aveva scritto la moglie. E l’operazione degustazione riparte. E tu che dopo tre minuti e ventidue secondi devi stare in classe. Mai uno o una che dicano: “Giovane, passa avanti tu, ché io c’ho tutta la mattinata a disposizione per cazzeggiare coi formaggi”. Ti guardano torvi se dal dottore cerchi di fregargli un posto in fila. Borbottano fra di loro maledizioni intorno alla maleducazione dei giovani d’oggi. Dovrebbero fare i negozi per la gente che c’ha moltissima fretta, e dei negozi per quella che non fa nulla tutto il giorno.

La lingua si trasforma, si sa. Cambia insieme con l’evoluzione sociale. Non ho elementi scientifici per comprendere la misura in cui si modifichi anche la pronuncia della lingua stessa. Quello che osservo sono i salentini i quali, da esteti incalliti qual sono, e a qualsiasi classe sociale appartengano, stanno imparando a pronunciare la zeta come il resto degli italiani. Sarà molto difficile ormai trovare qualcuno che dica “nel negozio vicino alla stazione ho comprato i fazzoletti” con le zeta dolci che facevano scompisciare i forestieri fino a una diecina d’anni fa. Sta scomparendo anche l’utilizzo forsennato della forma progressiva per indicare azioni che si sta per compiere come fanno gli anglosassoni. Sfido chiunque a trovare qualcuno che per dire “andrò a Roma la prossima settimana”, come ormai si dice, preferisca l’antico “sto andando a Roma…”. Ma è prepotentemente entrato nella lingua parlata anche il presente indicativo. È delizioso ascoltare un cinquantenne che ha imparato a dire al telefonino “ciao tesoro, vado in banca” anziché “sto andando…”. Ho ascoltato con le mie orecchie perfino qualche “Piove” invece che “sta piovendo”. Roba inconcepibile anche solo fino a pochi lustri addietro. Per non parlare del “tirar fuori qualcosa” che ha sbaragliato l’ormai arcaico “cacciare” e dell’ancor più lezioso “mettere giù” invece che “appoggiare” o il dialettale “abbassare”. Sono in fervida attesa dell’antesignano che chiederà alla moglie di “mettere su un caffè”. Sarà quello il momento in cui si potrà dire compiuta la globalizzazione (o, per i catastrofisti, la “omologazione”) della lingua parlata.

Le donne salentine, pur emancipate e, seppur abitanti nei paesi, sono piuttosto evolute nei costumi e nella mentalità, ma conservano un’istintiva arroganza agreste che annulla ogni loro sforzo d’agghindarsi e mostrarsi quanto più vicino possibile ai modelli cittadini della pubblicità. Avviene soprattutto quando cedi loro il passo. Io non so perché. Non so se esistono ancora maschi i quali non si mettano da parte tutte le volte che passi una qualsiasi signora, e indipendentemente dall’avvenenza della stessa. Non so se all’interno dei focolari gli uomini si comportino ancora da padroni zotici. Ho l’impressione che migliaia di maschi, intorno alle otto di sera, seggano in poltrona aspettando che la moglie scodelli loro cicorie e maiale arrosto. Un uomo che ha militato in Lotta Continua e che svolge una professione creativa spesso mi dice che non ha mai lavato i piatti del pranzo da che vive con la sua compagna. Sarà per questo che, quando cedi il passo a una donna, a Lecce e provincia, quella esibisce il seguente campionario di reazioni: a) alzare la testa con alterigia senza degnarti d’uno sguardo, b) arrossire, indietreggiare, curvare le spalle, c) guardarti sì, ma con un’espressione da Oh Povero Babbeo Che Ti Fai Metter Sotto Da Una Donna? Sarà perché non sono abituate, dunque? Come che sia, l’urbanità richiederebbe da parte loro piuttosto un leggero sorriso di ringraziamento che il maschione non interpreterà come un’avance, bensì come l’atteggiarsi civile di una convivenza evoluta.