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Note a margine - Alceo Giiugno 2014

Osservo discutere sulla nuova opera di Edoardo Winspeare, in sala e sui social network e nei pub, questi trentacinque-cinquantenni massimamente istruiti e creativi. Li vedo divertiti da questo volto del Salento che il regista mette in scena e che loro s’affannano a rimuovere, o semmai a ripescare e dipingere d’una patina accattivante che anestetizzi ogni valenza politica e storica e che, per usare un’espressione antica, levandosi la residua terra dalle scarpe e smettendo di parlare il linguaggio lagnoso del Sud sconfitto, vesta i panni di un glamour globalizzato, praticamente identico da New York a Madrid a Tokyo a Dublino. Va da che questi adultescenti trascorrano le due ore del film sghignazzando come si sghignazza quando si osservano buzzurri dei centri storici o delle periferie 167 che, forti di un dialetto ruspante e di modi tutt’altro che levigati (loro che hanno imparato ad appianare la propria prosodia da parlare un italiano quasi privo di inflessioni): danno vita a scenette da recita parrocchiale in vernacolo degli anni Settanta. Poi escono dalla sala e vergano il post snob che, con non sempre ornatissimo incedere, dichiara urbi et orbi che il film è una boiata micidiale. Naturalmente glisso sulle combriccole di fighetti in Hogan che si sono infilate nelle sale allo scopo di assistere a una specie di esibizione triviale da parte di plebaglia di rango inferiore. “A ‘sto giro è andati al risparmio”: commenta sarcastico il tipetto col cappello comprato al Village. Il quale poi è capace di andare a Venezia e applaudire la pellicola uzbeca girata con una sola camera e sottotitolata in tedesco. Il damerino ignora forse che negli ultimi anni le major hanno abbandonato gli Autori indipendenti che non si piegano alle logiche mercantili e che, spesso grazie al crowdfunding, son riusciti con quindici o ventimila euro a realizzare film di immane spessore artistico. Magari questa fauna aveva assai apprezzato quello che secondo me è il film meno riuscito di Winspeare, Galantuomini. Eh già, ma c’era il cast di professionisti, e il Salento d’amare che ci piace mostrare agli ospiti internazionali quando vengono a trovarci (è uno dei motivi per cui, credo, da noi piacciono tanto i film di Ozpetek).
Personalmente, oltre a tributare al Maestro un personale applauso scrosciante (non solo per la riuscita artistica dell’opera, ma anche per l’ostinazione con cui ha inseguito il sogno di fare una piccola gemma nell’estrema provincia, senza soldi e senza lustrini), dichiaro senza tema di smentita che è uno dei film più belli dell’anno. Che - se si esclude il gusto tutto winspeariano per questi explicit con nenia che vagheggiano di ritorni consolatori a una mitica ancorché praticamente immaginaria Età dell’oro contadina (ma il cineasta è lo stesso uomo che una volta dichiarò “La tradizione della pizzica non è mai esistita, l’ho inventata io di sana pianta”): in questo suo capolavoro Edoardo Winspeare ha introdotto l’elemento dell’ironia nonché quello del medaglione antropologico girato alla maniera di un Almodóvar (l’aspirante attrice che corre in bicicletta verso il set leccese è una scena di bellezza e arguzia rare). Non solo. C’è dentro tanta commedia inglese, e del migliore lignaggio. Alla maniera di L’erba di Grace, per intenderci, o di Ken Loach, o di Kinky Boots (osserviamo finalmente al lavoro il sangue anglosassone che scorre nelle vene del tricasino). Raccontare la Crisi, la fine del lavoro con crudo realismo ma anche con sguardo sorridente, perfino comico. Il manicheismo pauperista di cattivone riccastro del Nord versus genuina femmina del Sud: non basta a far scadere il film nell’oleografia ma lo scalfisce soltanto. Perché, agli occhi dello spettatore che abbia assistito alla proiezione dimenticandosi di esser salentino, con la predisposizione di chi guarda, appunto, un film armeno sottotitolato in francese: restano questo Salento deliziosamente bruttissimo buttato in faccia ai damerini, come in Sangue vivo (altro film che avrebbe giovato del taglio dei novanta secondi finali), e i problemi reali della gente qualsiasi, fatti di debiti e vestiti a tre euro dai cinesi e ragazzi senza speranza che girano a vuoto, di notte, nei paesi deserti, a bordo di vecchie Fiat. Restano l’interpretazione indimenticabile di Celeste Casciaro e il sorprendente, riuscitissimo, tenero cameo di Gustavo Caputo. Altro che elegantoni che sghignazzando nascondono a se stessi la caratteristica bile di chi dal talento (e dal successo) non è stato baciato.