C’era una volta una bambina... Amava correre a perdifiato sul piccolo colle vicino alla sua casa, per non perdere l’appuntamento con il sole che tramontava. E c’era una volta un luogo, un piccolo borgo con case diritte ed ordinate, una grande piazza su cui si specchiavano una chiesa, una scuola, gli uffici. Quella bambina si chiamava Adriana e quel posto, quel borgo, Monteruga: la sua casa.
Il minuscolo villaggio di Monteruga sorse durante il ventennio fascista e, con le sue abitazioni, la scuola, l’ambulatorio e la chiesa, era, ed è, solo un puntino nelle campagne di Veglie (Lecce), che volgono dolcemente verso il Mar Jonio. A partire dal 1926, la Società Elettrica per le Bonifiche e Irrigazioni (S. E. B. I.), istituita precedentemente dalla Banca Commerciale Italiana, acquistò alcuni terreni ricadenti nel vasto comprensorio delle terre d’Arneo tra cui, Monteruga. Un paese “inventato” fatto di uomini e donne giunti dai paesi limitrofi come Veglie, Leverano, Salice ma anche da paesi del profondo Salento come Morciano, Salve, Castrignano del Capo. La comunità di Monteruga era sostanzialmente dedita al lavoro, soprattutto quello dei campi, dove si coltivavano la vite, l’olivo, i cereali, il tabacco. I bambini frequentavano la scuola e, gli spazi verdi del piccolo borgo così come le campagne limitrofe, accoglievano quotidianamente i loro momenti di svago, le risate, i giochi. Una comunità operosa e solidale destinata però a non radicarsi... A Monteruga ci si trasferiva, ci si sposava, si nasceva e si viveva. Poi si moriva ma il cimitero non c’era perché i defunti “ritornavano” nei luoghi d’origine. Esauritasi pian piano “la funzione” per cui Monteruga era nata, i suoi abitanti si trasferirono altrove, tutte le attività cessarono e i luoghi finirono per essere disabitati. Nei primi anni Ottanta le ultime famiglie di Monteruga uscirono da quelle mura e vi fece ingresso il Silenzio.
Tutto questo è stato vissuto da almeno – o quasi – tre generazioni: una di queste era appunto quella di Adriana Diso che, nata a Castrignano del Capo, si trasferisce ancora bambina a Monteruga, con la sua famiglia, perché il papà lì ne era il fattore. La bimba, diventata donna, si sposa e lascia il suo caro borgo per trasferirsi nella vicina San Pancrazio, dove la sua vita prosegue tranquilla. Non dimentica però quei luoghi e vi ritorna spesso, con la famiglia e gli amici, assistendo impotente all’incuria totale che di lì a poco, inesorabile, vi giunge.
Un giorno, un male incurabile che cancella i ricordi, le porta via l’anziano padre e lei, i cui ricordi erano invece ancora vivi e palpitanti, inizia a trascriverli con il solo e semplice desiderio di lasciarli “in eredità” ai suoi figli. Monteruga, ormai violata e cadente risorge così dal grigio abbandono: le campane suonano ancora, le strade, le case e i campi si ripopolano di gesti, di voci, di cuori... tutto, nella mente di Adriana. Su decine di fogli che erano stati bianchi, la penna veloce verga ricordi profumati di terra, di sole, di semplice benessere. Frammenti di memorie di una bambina felice iniziano così ad unirsi in un abbraccio di parole, frasi, capitoli. Giunge un giorno, da Adriana, una giovane studiosa: i suoi occhi azzurri scrutano quegli scritti ravvisandovi gioia e malinconia, ma anche tanta voglia di riscatto. Altri poi leggono quelle pagine incoraggiandone l’autrice a non tenerle chiuse in un cassetto, altrimenti, tutto sarebbe andato perso, ancora una volta. Adriana non avrebbe mai immaginato di scrivere un libro ma poi, con semplicità e candore lo ha fatto. Il suo è stato un atto dovuto: ha ricostruito un vissuto, il suo e quello dei tanti che hanno eretto, con dedizione ed operosità un piccolo paese dalla vita breve. Il suo libro è stato accolto con gioia soprattutto da chi ha abitato quei luoghi, accendendo, anche in chi non li conosceva, il desiderio di vedere, capire, e, forse, gioire e soffrire insieme.
Monteruga invece è ferma, immobile, erosa dal vento ed esposta agli sguardi dei curiosi. In attesa.
Il minuscolo villaggio di Monteruga sorse durante il ventennio fascista e, con le sue abitazioni, la scuola, l’ambulatorio e la chiesa, era, ed è, solo un puntino nelle campagne di Veglie (Lecce), che volgono dolcemente verso il Mar Jonio. A partire dal 1926, la Società Elettrica per le Bonifiche e Irrigazioni (S. E. B. I.), istituita precedentemente dalla Banca Commerciale Italiana, acquistò alcuni terreni ricadenti nel vasto comprensorio delle terre d’Arneo tra cui, Monteruga. Un paese “inventato” fatto di uomini e donne giunti dai paesi limitrofi come Veglie, Leverano, Salice ma anche da paesi del profondo Salento come Morciano, Salve, Castrignano del Capo. La comunità di Monteruga era sostanzialmente dedita al lavoro, soprattutto quello dei campi, dove si coltivavano la vite, l’olivo, i cereali, il tabacco. I bambini frequentavano la scuola e, gli spazi verdi del piccolo borgo così come le campagne limitrofe, accoglievano quotidianamente i loro momenti di svago, le risate, i giochi. Una comunità operosa e solidale destinata però a non radicarsi... A Monteruga ci si trasferiva, ci si sposava, si nasceva e si viveva. Poi si moriva ma il cimitero non c’era perché i defunti “ritornavano” nei luoghi d’origine. Esauritasi pian piano “la funzione” per cui Monteruga era nata, i suoi abitanti si trasferirono altrove, tutte le attività cessarono e i luoghi finirono per essere disabitati. Nei primi anni Ottanta le ultime famiglie di Monteruga uscirono da quelle mura e vi fece ingresso il Silenzio.
Tutto questo è stato vissuto da almeno – o quasi – tre generazioni: una di queste era appunto quella di Adriana Diso che, nata a Castrignano del Capo, si trasferisce ancora bambina a Monteruga, con la sua famiglia, perché il papà lì ne era il fattore. La bimba, diventata donna, si sposa e lascia il suo caro borgo per trasferirsi nella vicina San Pancrazio, dove la sua vita prosegue tranquilla. Non dimentica però quei luoghi e vi ritorna spesso, con la famiglia e gli amici, assistendo impotente all’incuria totale che di lì a poco, inesorabile, vi giunge.
Un giorno, un male incurabile che cancella i ricordi, le porta via l’anziano padre e lei, i cui ricordi erano invece ancora vivi e palpitanti, inizia a trascriverli con il solo e semplice desiderio di lasciarli “in eredità” ai suoi figli. Monteruga, ormai violata e cadente risorge così dal grigio abbandono: le campane suonano ancora, le strade, le case e i campi si ripopolano di gesti, di voci, di cuori... tutto, nella mente di Adriana. Su decine di fogli che erano stati bianchi, la penna veloce verga ricordi profumati di terra, di sole, di semplice benessere. Frammenti di memorie di una bambina felice iniziano così ad unirsi in un abbraccio di parole, frasi, capitoli. Giunge un giorno, da Adriana, una giovane studiosa: i suoi occhi azzurri scrutano quegli scritti ravvisandovi gioia e malinconia, ma anche tanta voglia di riscatto. Altri poi leggono quelle pagine incoraggiandone l’autrice a non tenerle chiuse in un cassetto, altrimenti, tutto sarebbe andato perso, ancora una volta. Adriana non avrebbe mai immaginato di scrivere un libro ma poi, con semplicità e candore lo ha fatto. Il suo è stato un atto dovuto: ha ricostruito un vissuto, il suo e quello dei tanti che hanno eretto, con dedizione ed operosità un piccolo paese dalla vita breve. Il suo libro è stato accolto con gioia soprattutto da chi ha abitato quei luoghi, accendendo, anche in chi non li conosceva, il desiderio di vedere, capire, e, forse, gioire e soffrire insieme.
Monteruga invece è ferma, immobile, erosa dal vento ed esposta agli sguardi dei curiosi. In attesa.