L’impianto del vitigno Primitivo alla fine del XIX secolo nell’Alta Murgia barese: il caso delle tenute Curtopassi in Altamura e Andria
Il quadro storico di riferimento entro cui si collocano le vicende che vorrei proporre all’attenzione dei lettori è quello definito dai mutamenti del paesaggio agrario in Puglia conseguenti all’impianto e alla forte espansione dei vigneti nell’ultimo trentennio dell’800, con la connessa realizzazione di strutture razionali per la lavorazione dell’uva, la produzione e la conservazione del vino.
In tale contesto il periodo di maggiore slancio della viticoltura pugliese si ebbe nel decennio 1878-1887, quando le favorevoli condizioni del mercato vinicolo internazionale, privato di gran parte della produzione francese a causa di una devastante epidemia di fillossera, indussero il contadino pugliese, come scriveva Carmelo Colamonico nella sua Memoria illustrativa della carta della utilizzazione del suolo della Puglia (1960), «a piantare il più che gli era possibile la vigna, assumendosene gli oneri con contratti a miglioria, ricorrendo al prestito bancario per il capitale occorrente alla trasformazione fondiaria, riversando sulle nuove aree di coltura tutte le sue energie di lavoro e quelle delle persone familiari» (pp. 137-138). E così, secondo un’espressione ricorrente nella pubblicistica del tempo, l’uva sembrava rappresentare «una miniera d’oro» per l’intera regione.
La corsa al vigneto fu allora impetuosa: nel giro di pochi anni migliaia di ettari furono destinati alla nuova coltura, con la prevalente produzione di vini da taglio non tipizzati deperibili nel giro di pochi mesi e destinati all’esportazione. Quasi insignificante era invece, in quel contesto, la produzione di vini da tavola rispondenti a standard elevati di qualità.
Lo sviluppo della vignetazione investì, nella provincia di Bari, in particolare i circondari di Bari e di Barletta, ma interessò, sia pure in forme piuttosto limitate, anche le zone più interne delle Murge settentrionali, dove, come altrove in Puglia, vi furono proprietari che impiantarono vigneti, per gestirli direttamente in economia e destinarli a colture vinicole specializzate, e costruirono moderni e idonei stabilimenti per la vinificazione.
Farò un unico, ma significativo, esempio al riguardo: quello delle tenute e degli stabilimenti enologici del marchese Curtopassi, che aveva casa e amministrazione in Bisceglie e possedimenti nella zona murgiana, tra le città di Andria e Altamura., dove in 600 ettari, prima tenuti a coltura erbacea e a mandorleti, furono impiantate negli anni Ottanta dell’800 delle «bellissime vigne», secondo l’espressione di Antonio Fonseca, allora direttore della R. Cantina Sperimentale e dell’Ufficio Governativo per l’assaggio dei vini di Barletta.
I vigneti di Pozzo Sorgente (ad Andria) e di Sant’Elena (ad Altamura), per un totale di 457 ettari, furono sottoposti a coltivazione diretta da parte del proprietario, mentre i restanti 150 ettari delle tenute andriesi di Santa Barbara e Lama di Muccia erano stati dati in fitto fin dal 1873 a contadini in piccoli lotti, ma erano destinati, nelle intenzioni di Curtopassi, a essere riportati anch’essi in economia non appena i fitti fossero scaduti. Le piantagioni erano eseguite praticando fosse larghe e profonde, tali da favorire un ampio sviluppo nel sistema radicale e una conseguente rigogliosa crescita delle piante, mentre particolarmente attenta fu la scelta dei vitigni, in rapporto alle condizioni climatiche e pedologiche e alle esigenze imposte dai processi di vinificazione. Così, ad esempio, nei vigneti presso Altamura fu impiantata un’unica varietà di vitigno: quella detta primitivo o primativo, che Fonseca celebrava come una «varietà molto diffusa ed accreditata in quelle località in collina, oltre che per i pregi del buon gusto che apporta nel vino, anche per provata resistenza alle intemperie frequenti e precoci colà. Gli stessi pregi di questo vitigno ed anche l’altro di una molto probabile resistenza alla peronospora […] fa sì che esso incontri sempre maggior credito e diffusione in molte parti delle provincie di Bari e Lecce» (A. Fonseca, I vigneti e gli stabilimenti enologici del signor Marchese Curtopassi, Barletta, Tipo-Litografia Dellisanti & C., 1890, p. VII).
La fabbricazione e la conservazione del vino avvenivano in due distinti stabilimenti, due dei quali destinati a tinaie e due a cantine. Le due tinaie, pressoché simili, tranne che per le dimensioni e per alcune lievi differenze che non riguardavano però la distribuzione degli ambienti e la divisione del lavoro, erano state realizzate rispettivamente nel vigneto di Pozzo Sorgente e in quello di Sant’Elena e servivano per la fermentazione delle uve prodotte nei due vigneti. I due stabilimenti per il deposito e l’invecchiamento del vino - che avveniva in piccoli fusti da 225 litri (detti bordolesi o barriques) e in altri da 600 litri, che si accavallavano in più ordini, secondo il sistema francese - si trovavano, invece, uno in località Lama di Muccia, nei pressi di Andria, e l’altro a Bisceglie.
Curtopassi pensava, così, di far fronte alla crisi che aveva colpito la vitivinicoltura pugliese all’indomani della rottura dei rapporti commerciali con la Francia del 1888, con la conseguente e rapida riduzione delle esportazioni dei vini pugliesi e l’immediato crollo dei prezzi. Occorreva dunque cercare nuove strade, che Curtopassi pensò di trovare sostituendo la produzione di vini da taglio, ormai decisamente esuberanti rispetto alla domanda, con quella di vini da tavola a gradazione alcolica più bassa. Egli fu così in grado di mettere in commercio tre tipi di vino, i primi due, denominati Sorgente e Santa Barbara, particolarmente apprezzati in Belgio e in Inghilterra, il terzo, detto Rubino, appartenente ancora alla categoria dei vini del luogo ad elevata alcolicità, la cui produzione era, comunque, imposta anch’essa dalle esigenze commerciali, dal momento che non era possibile collocare sul mercato l’intera produzione, se assicurata unicamente dalle due prime qualità.
Nel giro di pochi anni, però, l’impresa di Curtopassi andò incontro a difficoltà insormontabili, pur in una situazione di fine secolo segnata da una straordinaria estensione di vigneti nella regione pugliese, oltre 300 mila ettari, con una maggiore diffusione nella Terra di Bari e nella penisola salentina, dove il terreno era particolarmente favorevole alla viticoltura e la numerosa popolazione assicurava ai lavori un’abbondante manodopera.
Probabilmente anche a causa della fillossera che infestò le campagne murgiana nel 1899, distruggendo gran parte dei vigneti impiantati nei decenni precedenti, lo sforzo di Curtopassi fu vanificato completamente, i suoi eredi furono privati della proprietà, a seguito del fallimento dell’azienda, e le superfici vitate dovettero cedere il passo al seminativo semplice e, nelle zone di minore altitudine, all’oliveto-mandorleto.
Gli stabilimenti vinicoli sono stati, negli anni, quasi completamente abbattuti e i resti ancora visibili, come ad esempio quelli relativi alla tinaia Sant’Elena ad Altamura presentano solo trascurabili tracce di un’attività che fu per qualche anno caratterizzata da un notevole slancio. Il fabbricato di detta tinaia è stato nel tempo in gran parte abbattuto per ricavare utili dalla vendita di tegole, travi e materiale edilizio, reimpiegati per nuove costruzioni.
Insomma, le innovazioni introdotte da Curtopassi, come da altri imprenditori agricoli alla fine del XIX secolo, quale ad esempio Luigi Patroni Griffi de Laurentiis a Santeramo, non riuscirono ad andare al di là della dimensione tecnica e colturale e a provocare un impatto significativo sul piano sociale e culturale, non ebbero alcun effetto di tipo cumulativo e non rappresentarono un modello per le popolazioni locali. Cosicché non hanno inciso neanche nella memoria e non sono entrate, con le loro realizzazioni materiali, nel novero di quello che le comunità della zona hanno eletto a patrimonio, degno di essere salvaguardato e trasmesso alle generazioni future, in grado di essere oggetto di rappresentazioni, produrre conoscenze nuove e identificare simbolicamente un contesto, una società, una cultura. Ma di quella esperienza resta l’eredità di un vino, il Primitivo, la cui produzione e commercializzazione furono sperimentate allora per qualche anno con successo e le cui qualità e caratteristiche lo rendevano particolarmente adatto a un territorio aspro e sassoso qual era quello dell’Alta Murgia barese e, più di qualunque altro, idoneo e resistente alle sue rigide temperature invernali.
Il quadro storico di riferimento entro cui si collocano le vicende che vorrei proporre all’attenzione dei lettori è quello definito dai mutamenti del paesaggio agrario in Puglia conseguenti all’impianto e alla forte espansione dei vigneti nell’ultimo trentennio dell’800, con la connessa realizzazione di strutture razionali per la lavorazione dell’uva, la produzione e la conservazione del vino.
In tale contesto il periodo di maggiore slancio della viticoltura pugliese si ebbe nel decennio 1878-1887, quando le favorevoli condizioni del mercato vinicolo internazionale, privato di gran parte della produzione francese a causa di una devastante epidemia di fillossera, indussero il contadino pugliese, come scriveva Carmelo Colamonico nella sua Memoria illustrativa della carta della utilizzazione del suolo della Puglia (1960), «a piantare il più che gli era possibile la vigna, assumendosene gli oneri con contratti a miglioria, ricorrendo al prestito bancario per il capitale occorrente alla trasformazione fondiaria, riversando sulle nuove aree di coltura tutte le sue energie di lavoro e quelle delle persone familiari» (pp. 137-138). E così, secondo un’espressione ricorrente nella pubblicistica del tempo, l’uva sembrava rappresentare «una miniera d’oro» per l’intera regione.
La corsa al vigneto fu allora impetuosa: nel giro di pochi anni migliaia di ettari furono destinati alla nuova coltura, con la prevalente produzione di vini da taglio non tipizzati deperibili nel giro di pochi mesi e destinati all’esportazione. Quasi insignificante era invece, in quel contesto, la produzione di vini da tavola rispondenti a standard elevati di qualità.
Lo sviluppo della vignetazione investì, nella provincia di Bari, in particolare i circondari di Bari e di Barletta, ma interessò, sia pure in forme piuttosto limitate, anche le zone più interne delle Murge settentrionali, dove, come altrove in Puglia, vi furono proprietari che impiantarono vigneti, per gestirli direttamente in economia e destinarli a colture vinicole specializzate, e costruirono moderni e idonei stabilimenti per la vinificazione.
Farò un unico, ma significativo, esempio al riguardo: quello delle tenute e degli stabilimenti enologici del marchese Curtopassi, che aveva casa e amministrazione in Bisceglie e possedimenti nella zona murgiana, tra le città di Andria e Altamura., dove in 600 ettari, prima tenuti a coltura erbacea e a mandorleti, furono impiantate negli anni Ottanta dell’800 delle «bellissime vigne», secondo l’espressione di Antonio Fonseca, allora direttore della R. Cantina Sperimentale e dell’Ufficio Governativo per l’assaggio dei vini di Barletta.
I vigneti di Pozzo Sorgente (ad Andria) e di Sant’Elena (ad Altamura), per un totale di 457 ettari, furono sottoposti a coltivazione diretta da parte del proprietario, mentre i restanti 150 ettari delle tenute andriesi di Santa Barbara e Lama di Muccia erano stati dati in fitto fin dal 1873 a contadini in piccoli lotti, ma erano destinati, nelle intenzioni di Curtopassi, a essere riportati anch’essi in economia non appena i fitti fossero scaduti. Le piantagioni erano eseguite praticando fosse larghe e profonde, tali da favorire un ampio sviluppo nel sistema radicale e una conseguente rigogliosa crescita delle piante, mentre particolarmente attenta fu la scelta dei vitigni, in rapporto alle condizioni climatiche e pedologiche e alle esigenze imposte dai processi di vinificazione. Così, ad esempio, nei vigneti presso Altamura fu impiantata un’unica varietà di vitigno: quella detta primitivo o primativo, che Fonseca celebrava come una «varietà molto diffusa ed accreditata in quelle località in collina, oltre che per i pregi del buon gusto che apporta nel vino, anche per provata resistenza alle intemperie frequenti e precoci colà. Gli stessi pregi di questo vitigno ed anche l’altro di una molto probabile resistenza alla peronospora […] fa sì che esso incontri sempre maggior credito e diffusione in molte parti delle provincie di Bari e Lecce» (A. Fonseca, I vigneti e gli stabilimenti enologici del signor Marchese Curtopassi, Barletta, Tipo-Litografia Dellisanti & C., 1890, p. VII).
La fabbricazione e la conservazione del vino avvenivano in due distinti stabilimenti, due dei quali destinati a tinaie e due a cantine. Le due tinaie, pressoché simili, tranne che per le dimensioni e per alcune lievi differenze che non riguardavano però la distribuzione degli ambienti e la divisione del lavoro, erano state realizzate rispettivamente nel vigneto di Pozzo Sorgente e in quello di Sant’Elena e servivano per la fermentazione delle uve prodotte nei due vigneti. I due stabilimenti per il deposito e l’invecchiamento del vino - che avveniva in piccoli fusti da 225 litri (detti bordolesi o barriques) e in altri da 600 litri, che si accavallavano in più ordini, secondo il sistema francese - si trovavano, invece, uno in località Lama di Muccia, nei pressi di Andria, e l’altro a Bisceglie.
Curtopassi pensava, così, di far fronte alla crisi che aveva colpito la vitivinicoltura pugliese all’indomani della rottura dei rapporti commerciali con la Francia del 1888, con la conseguente e rapida riduzione delle esportazioni dei vini pugliesi e l’immediato crollo dei prezzi. Occorreva dunque cercare nuove strade, che Curtopassi pensò di trovare sostituendo la produzione di vini da taglio, ormai decisamente esuberanti rispetto alla domanda, con quella di vini da tavola a gradazione alcolica più bassa. Egli fu così in grado di mettere in commercio tre tipi di vino, i primi due, denominati Sorgente e Santa Barbara, particolarmente apprezzati in Belgio e in Inghilterra, il terzo, detto Rubino, appartenente ancora alla categoria dei vini del luogo ad elevata alcolicità, la cui produzione era, comunque, imposta anch’essa dalle esigenze commerciali, dal momento che non era possibile collocare sul mercato l’intera produzione, se assicurata unicamente dalle due prime qualità.
Nel giro di pochi anni, però, l’impresa di Curtopassi andò incontro a difficoltà insormontabili, pur in una situazione di fine secolo segnata da una straordinaria estensione di vigneti nella regione pugliese, oltre 300 mila ettari, con una maggiore diffusione nella Terra di Bari e nella penisola salentina, dove il terreno era particolarmente favorevole alla viticoltura e la numerosa popolazione assicurava ai lavori un’abbondante manodopera.
Probabilmente anche a causa della fillossera che infestò le campagne murgiana nel 1899, distruggendo gran parte dei vigneti impiantati nei decenni precedenti, lo sforzo di Curtopassi fu vanificato completamente, i suoi eredi furono privati della proprietà, a seguito del fallimento dell’azienda, e le superfici vitate dovettero cedere il passo al seminativo semplice e, nelle zone di minore altitudine, all’oliveto-mandorleto.
Gli stabilimenti vinicoli sono stati, negli anni, quasi completamente abbattuti e i resti ancora visibili, come ad esempio quelli relativi alla tinaia Sant’Elena ad Altamura presentano solo trascurabili tracce di un’attività che fu per qualche anno caratterizzata da un notevole slancio. Il fabbricato di detta tinaia è stato nel tempo in gran parte abbattuto per ricavare utili dalla vendita di tegole, travi e materiale edilizio, reimpiegati per nuove costruzioni.
Insomma, le innovazioni introdotte da Curtopassi, come da altri imprenditori agricoli alla fine del XIX secolo, quale ad esempio Luigi Patroni Griffi de Laurentiis a Santeramo, non riuscirono ad andare al di là della dimensione tecnica e colturale e a provocare un impatto significativo sul piano sociale e culturale, non ebbero alcun effetto di tipo cumulativo e non rappresentarono un modello per le popolazioni locali. Cosicché non hanno inciso neanche nella memoria e non sono entrate, con le loro realizzazioni materiali, nel novero di quello che le comunità della zona hanno eletto a patrimonio, degno di essere salvaguardato e trasmesso alle generazioni future, in grado di essere oggetto di rappresentazioni, produrre conoscenze nuove e identificare simbolicamente un contesto, una società, una cultura. Ma di quella esperienza resta l’eredità di un vino, il Primitivo, la cui produzione e commercializzazione furono sperimentate allora per qualche anno con successo e le cui qualità e caratteristiche lo rendevano particolarmente adatto a un territorio aspro e sassoso qual era quello dell’Alta Murgia barese e, più di qualunque altro, idoneo e resistente alle sue rigide temperature invernali.
[1.27 MB]