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Leonida di Taranto

01/03/2007
un rapporto "estrinseco" col mondo del vino.

Non poteva mancare in questo nostro itinerario poetico-enologico il nome di Leonida, senz’altro il più grande poeta dell’ antica Taranto. Un poeta conosciuto e studiato dagli
esperti, un po’ meno forse dai semplici lettori e dagli stessi cittadini di Taranto e provincia che ai nomi dei grandi personaggi del passato associano quello di una strada, di una scuola, di una piazza.
Si pensi a mo’ d’esempio ad Archita, a Pitagora, a Quinto Ennio, ad Aristosseno, a Icco, a Polibio, a Leonida…Molto poco, direbbe qualcuno, ma la cosa meriterebbe altra discussione e riflessione.

Leonida di Taranto, vissuto nel III secolo a.C. in età ellenistica, quando ormai Roma  andava allargando i suoi domini sull’Italia meridionale e dopo le guerre sannitiche dava luogo al conflitto con Taranto, che nel 272 si arrese ai Romani,  ebbe una vita errabonda e peregrinò tra Taranto e l’Egitto, l’Epiro, la Macedonia e la Grecia.
Di lui non ci restano molte notizie, ma dalla sua produzione riusciamo a farcene un’idea abbastanza verosimile.
Povero tra i poveri (almeno così a lui piacque rappresentarsi e la questione interpretativa resta sempre aperta), padrone di una modestissima casa, provò la miseria e la sofferenza e per un tozzo di pane non mancò di allontanarsi dalla sua patria e di fare  la conoscenza del mondo e “de li vizi umani e del valore”.
Rappresentò nei suoi epigrammi  (ce ne restano poco più di un centinaio) la vita quotidiana dei suoi concittadini più umili: pescatori, artigiani, filatrici, massaie…con una partecipazione sentita  alle loro vicissitudini e ai loro travagli, tanto che non mancò di dare risalto agli stessi attrezzi di lavoro di cui essi fecero uso (nasse, reti, telai, regoli e squadre…) e che spesso dedicarono come ex voto alle varie divinità.

La Taranto di oltre duemila anni fa riemerge dai versi di questo poeta colto e ricercato che, a dispetto dei contenuti, adotta una lingua ardita e ricercata, e non di rado oscura (un rompicapo questo per gli stessi filologi) e che, sulla scorta del pensiero ‘cinico’ (Diogene, ad es.), canta la moderazione, si accontenta del poco, non aspira alla ricchezza ed è consapevole della fragilità umana e del passo estremo che attende tutti gli uomini: la morte livellatrice (vi ricordate di un certo Totò?).
Leonida, come è stato rilevato da alcuni studiosi (in primis Marcello Gigante), non crede nell’aldilà, nella presenza di un dio o di una potenza trascendente, crede nelle possibilità dell’uomo, autentico faber fortunae suae, e contro le avversità della vita non vede altra via d’uscita che quella di stringere tra gli uomini una forma di solidarietà e di patto comune (qualcosa di analogo ma con più ampio respiro dirà il Leopardi nella lirica  del periodo partenopeo“La Ginestra”).
Di una cosa però Leonida è assolutamente certo: la poesia gli darà la  gloria e il suo nome resterà immortale nei tempi. Di questo è grato alle Muse che, in cambio delle sofferenze e delle pene, gli dettero il dono più prezioso, quello della poesia.
Per la sua intensità famoso resta l’epigramma in cui parla della sua lontananza da Taranto e della convinzione che il suo nome resterà vivo in eterno (come si può leggere nei versi che si trovano incisi nel salone della Provincia di Taranto).
“Molto lontano dormo dalla terra d’Italia  e dalla mia patria, Taranto. Questo è per me più amaro della morte. Tale è la  vana vita di ogni nomade. Ma le Muse mi amarono, e per tutte le mie sventure mi diedero in cambio la dolcezza del miele. Il nome di Leonida non è morto. I doni delle Muse lo tramandano per ogni tempo” (trad.S.Quasimodo).
 
Ma per venire al tema del vino, che è quello che ci interessa maggiormente, devo subito  osservare che Leonida, fedele ai canoni della poesia dedicatoria e funeraria, rivolge al vino un’attenzione direi estrinseca, nel senso che in lui non c’è quella partecipazione e quel coinvolgimento che abbiamo riscontrato in autori come Alceo, Anacreonte e Asclepiade. Il vino, insomma non è per lui occasione di gioioso incontro, di piacere, nonché di dibattito e di confronto con gli altri su tematiche culturali nella cornice elegante e raffinata del simposio. Egli è lontano da quella realtà e  indirizza la sua attenzione al mondo degli umili e suo personale, vedendo nella vite un segno di abbondanza e nel vino una bevanda che caratterizza la frugalità del pasto quotidiano o, talvolta, ironizzando sul suo uso o abuso. 
Una sobria annotazione caratterizza lo ‘spazio vitale’ entro cui si realizza il progetto di vita ad es. di Cleiton : “Qui il breve campo di Cleiton e il solco stretto pronto alla semina; qui la piccola vigna e là il boschetto per la legna; e su questo spazio Cleiton ha passato ottanta anni” (S.Quasimodo).
Nel carattere votivo tipico della sua produzione rientra un epigramma condito di ironia come questo:
“Questa offerta ricevi, Latria, d’un vagabondo, d’un poveretto che ha grame provviste, Leonida : sono focacce crasse, ulive ben conservate, questo verde fico, l’ho proprio ora raccolto, e d’un grappolo d’uva vinoso cinque acini, e per libare questo fondiglio di tazza. Se tu mi scampi da miseria, come dal morbo, ucciderà qualcuno una capretta per te “ (C. Micolano).
In un altro epigramma il vecchio Bìtone rivolge in cambio di alcuni doni  al dio Pan, dio dei boschi, la preghiera di rendere la sua casa ricca di latte e al dio Bacco, invocato con gli epiteti di Lieo (cioè liberatore dagli affanni) e Bromio (fremente di passione), di molti grappoli :
“L’arcade Bitone a Pan l’agreste, a Lieo che baccheggia, alle Ninfe donò queste cose: per il dio Pan un capretto novello che con la madre gioca ancora, e a Bromo l’edera errante; alle Ninfe i fiori variegati d’autunno dei roseti che schiudon rosse di sangue le foglie. Ninfe, voi rendete ricca la casa del vecchio: ricca di latte, o Pan, di molti grappoli, Bacco” (C. Micolano).
 Meritamente famoso resta il componimento di carattere funerario (ma dai commentatori considerato fittizio) riservato alla vecchia Maronide, l’ubriacona per antonomasia, personaggio già tipico nella commedia attica. Qui si coglie il gusto per la caricatura, per la deformazione grottesca  che è proprio dell’arte ellenistica e, nel campo del teatro, di quella farsa fliacica fiorita proprio nella Taranto di Leonida:
“Maronide, la vecchia ubriacona qui giace, la spugna degli orci, sul suo sepolcro spicca il calice attico a tutti noto. E piange anche sotterra : non per i figli, non per il marito, che lasciò a stentare la vita, ma per una cosa su tutte, perché il calice è vuoto” (R. Cantarella).