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La mietitura (lu mètiri) e i suoi attrezzi a Manduria, ieri.

01/11/2007
Mi è sembrato più conveniente, dovendo presentare gli attrezzi relativi alla mietitura, conservati nella nostra raccolta museale,  inserirli nel contesto delle operazioni del mietere, avvertendo che i termini dialettali riportati, come al solito, attengono al dialetto di Manduria.
Dalla metà di giugno alla metà di luglio arrivava il tempo delle messi (lu tiempu ti  miéssi) durante il quale il contadino effettuava la mietitura dei cereali maturi (grano, orzo, avena). Questa operazione, che consiste nel taglio degli steli per cogliere le spighe,  prima dell’avvento delle macchine agricole  quali falciatrici, mietitrici e mietitrebbiatrici (fine del XIX secolo) avveniva manualmente, come manualmente veniva pure praticata la semina.
Nella mietitura il contadino poneva tutte le sue speranze per un raccolto che lo ripagasse dei sacrifici di una lunga e dura annata agraria, dei tanti lavori preparatori e di tante trepidazioni e ansie ‘meteorologiche’ patite, specialmente nel periodo invernale e primaverile.
In presenza di  grandi proprietà fondiarie coltivate a grano, come nella Capitanata  e in Lucania sino ai primi decenni del secolo scorso,  durante il periodo della mietitura, crescendo la necessità di reperire manodopera bracciantile non disponibile sul posto, si ovviava con l’impiego di lavoratori  che accorrevano numerosi dalle altre province pugliesi ed erano ingaggiati con contratti dagli stessi proprietari o dai loro fiduciari. Questi braccianti, aggregati in compagnie  che talvolta raggiungevano il considerevole numero di 50 unità, facevano riferimento ad un capoccia il quale, con grande anticipo sull’inizio delle operazioni, pattuiva modalità di lavoro, salario e beni di ristoro quali pane, olio, sale, companatico, ecc. per la sua squadra.
Questo non avveniva a Manduria, che notoriamente invece esportava buoni mietitori, o nella nostra provincia dove la forza lavoro locale era sufficiente a soddisfare le esigenze di manodopera da parte di aziende agricole piccole o medie per lo più a conduzione  familiare.  Rare, quindi, erano le squadre (parànze), composte da tre o quattro  mietitori e da un legatore, che operavano di solito negli appezzamenti di grosse masserie, spostandosi anche in paesi diversi del territorio per tutto il periodo della mietitura; il lavoro più spesso era portato avanti dalla famiglia del colono (con l’impiego di donne e ragazzi) se mai allargata ad altri componenti estranei, con i quali ci si scambiava simili favori.
Il fronte del campo da mietere era affrontato dai mietitori che impugnavano nella mano destra la falce dentata, accuratamente affilata con la lima a sezione triangolare (triangulèttu) e con la cote (petra mola). Questo strumento antichissimo, chiamato dai Romani falx messoria,  era di acciaio malleabile, forgiato dai nostri fabbri ferrai e  presentava  una lama sottile e  stretta, poco ricurva, con il tagliente dalla parte concava, munita di dentelli rivolti verso il manico, che era di  legno e  terminava a becco di civetta per una facile tenuta.
La mano sinistra,  invece, che afferrava il mannello (scèrmite o scièrmiti) di spighe da tagliare e che  di volta in volta veniva seghettato  con un sol colpo deciso e rapido,  era protetta da eventuali tagli della falce con ditali di canna (cànnuli), mentre un cappellaccio di paglia, dalle larghe tese, un rustico fazzoletto, legato intorno al collo o appeso alla cintola, ed un camicione di tela grezza, accollato e con le maniche lunghe, completavano l’equipaggiamento del mietitore, difendendolo dal sole, dal sudore e dalle punture delle spighe.
I ditaloni di canna, che venivano infilati nel medio, nell’anulare e nel mignolo della mano sinistra, lasciando al pollice ed all’indice piena libertà di muoversi, erano per una parte della loro lunghezza, in corrispondenza  delle falangi e del dorso,  tagliati a metà per consentire l’articolazione delle dita.
Non più di tre potevano essere i mannelli di grano, che, falciati e  singolarmente legati con uno stelo dello stesso grano, avvolto intorno, erano trattenuti dal mietitore prima di essere lasciati cadere a terra, per essere raccolti dal legatore (liànte) che seguiva, spostandosi rapidamente dall’uno all’altro dei falciatori.
L’altezza del taglio delle spighe avveniva all’incirca a 30-40 cm dal suolo, per consentire di bruciare le stoppie e migliorare così la concimazione del terreno; un taglio  più basso invece era  collegato alla necessità di disporre di più paglia da utilizzare come foraggio per gli animali o per lettiere.
Vario il numero di mannelli che formavano il covone (mannùcchju): erano tanti quanti potevano essere  trattenuti tra il braccio sinistro ed il corpo e stretti insieme poi con un legaccio (àusu) costituito sempre da  spighe, scelte tra le più lunghe e robuste, che erano attorcigliate e ritorte tra loro in cima  e poi passate attorno al fascio. I covoni, lasciati dal legatore in piedi con le spighe rivolte in alto, solo successivamente venivano riuniti (se in numero di tre o quattro formavano l’urrièddu, se superiore, il cumulo prendeva il nome di mannucchjàru, se infine si arrivava sino a venti covoni si aveva lu siéddu), ed erano ancora trattenuti  nel fondo diversi giorni, per consentire ai chicchi di asciugare nelle spighe e raggiungere la giusta maturazione, prima di essere trasportati sull’aia.
La sistemazione dei covoni, lasciati a seccare, richiedeva una certa attenzione e si eseguiva facendo in modo che le spighe fossero rivolte verso l’interno e fossero coperte con uno o più fasci appoggiati orizzontalmente ed in opposizione onde assicurare la migliore protezione in caso di temporali improvvisi e consentire l’aerazione interna e l’essiccamento degli steli.
Raccogliere e mettere insieme i mannelli di grano falciato (šcirmitàri), legare i manipoli per fare il covone (mmausàri), disporre i covoni in mucchi (nsiddàri) erano operazioni svolte egregiamente anche da donne o da  ragazzi; a questi ultimi era assegnato inoltre il compito di non far mancare agli operai la preziosa e ristoratrice acqua che era trasportata e conservata fresca nell’orciolo di creta (mmili).
La lunga giornata lavorativa  dei mietitori iniziava alle prime luci dell’alba e terminava al tramonto, da sole a sole si diceva, ed era altrettanto dura e faticosa dovendo operare costantemente curvi sotto un sole implacabile,  nel periodo più torrido dell’anno.
Concludendo con la sapienza popolare, solo due proverbi: pi cincu mitituri no basta nu lianti (per cinque mietitori non basta un legatore); sciàmu a San Catàutu e puei inìmu, lu cranu jè ncannulàtu e lu uèrgju è chinu (tra l’andare e il ritornare da Taranto per la festa del protettore San Cataldo, che cade il 10 maggio, al grano è già indurito il fusto mentre l’orzo si è riempito).