«Adriatic sea or Gulf of Venice». Ancora a fine XIX secolo, i geografi inglesi, nel licenziare alle stampe le loro carte raffiguranti l’Italia, usano solo quel nome per indicare specificamente uno dei mari, che bagnano la penisola. Tutto il resto, altro non è se non «Mediterranean sea», nel quale troviamo – leggendo, ad esempio, la carta stampata a Londra da Thomas Kelly – i golfi di Taranto e di Squillace, se stando ad est andiamo verso sud, e quelli di Salerno, Napoli e Genova se, doppiato lo Stretto di Messina e stando più a ovest, decidiamo di risalire verso nord, lungo quella che noi conosciamo (ma in quelle carte non è scritto nulla) come costa del mar Tirreno.
«Adriatic sea» è l’unico nome di un mare, che bagna l’Italia e coincide con il Golfo di Venezia: le insegne di San Marco, dunque, dominavano su quelle acque. Un dominio culturale più ampio, rispetto a quello politico: un dominio che si esprime proprio attraverso sulle onde di quel mare. Da lì arrivavano, ab immemorabili, le buone e le cattive notizie: l’Adriatico era (e ogni tanto è ancora) un mare di pirati ed era quello che solcarono i Turchi per fare eccidio ad Otranto. È quello, del resto, sul quale probabilmente navigò l’apostolo Pietro per raggiungere l’Italia e portare Cristo nel cuore dell’Impero, a Roma appunto.
Sono diversi i luoghi sul Basso Adriatico e sullo Jonio, che cercano nella tradizione orale, cristallizzatasi in un antico scritto o in un manufatto, la ragione dell’essere stati approdo dell’imbarcazione del Pescatore di Galilea e ancora pescatori sono quelli, che hanno portato sulle coste pugliesi i corpi di santi, custoditi nelle loro urne funerarie.
È agevole notare il passaggio dalla tradizione orale alla «realtà» dei corpi. Tutto però abbraccia la sfera del «prodigio» e dall’Adriatico, «mare di prodigi», sono giunti sulle nostre coste anche Madonne e Crocifissi e se un triangolo misterioso delinea un mare in altro continente, un triangolo prodigioso si può descrivere, con le storie di tre crocifisso ora conservati a Brindisi, Torchiarolo e Latiano.
Una tempesta in Adriatico, infatti, è alla base dei due prodigi e della presenza dei crocifissi a Brindisi e Torchiarolo. Del primo avvenimento portentoso lasciò memoria scritta il carmelitano Andrea Della Monaca, quando a Lecce “appresso Pietro Micheli”, nell’anno 1674, diede alle stampe, “con licenza de’ superiori”, la Memoria historica dell’antichissima e fedeliss(ima) città di Brindisi. Non interessa, in questa sede, verificare se e quanto il monaco abbia attinto dal manoscritto del Moricino, certamente è ancora affascinante leggere che quella «miracolosa Imagine del nostro Salvatore, di rilievo, pendente dal patibolo della Croce», allora come ora conservata nella Chiesa del Cristo dei Domenicani, non si mosse da quel luogo, dopo esservi giunta evidentemente con l’intenzione divina (per chi crede) di far lì la sua dimora. Prima di raccontare la storia, il padre Della Monaca descrisse il manufatto: «la materia è di legno – annotò -, né per tanti secoli ha possuto il tempo nuocerla, essendosi resa incorruttibile dalla divina Imagine ch’insè rattiene». Quindi iniziò a dire che una nave veneta giunse da Alessandria d’Egito, rifuggiandosi in porto perché «l’onde feroci dell’Adriatico» non consentivano la navigazione. A bordo di quella nave vi era «un Chiarissimo Venetiano, chiamato per Nome Giovanni Cappello, che veniva da Gierusalemme, dove per sua devotione haveva visitato quei Santi luoghi, portando con sé molte reliquie, e tra l’altre l’Imagine predetta del Santissimo Crocifisso».
Il veneziano fu ricevuto nel convento dei Domenicani dal superiore «ch’era di Bergamo, Città soggetta alla Republica Veneta» e fu proprio costui che, saputo del carico della nave, spinto «non tanto dalla curiosità, quanto dalla devotione», pregò il Cappello «che volesse farlo scendere in terra, acciò l’esponesse publicamente nella Chiesa, per farlo adorare dal Popolo Brindisino». Il veneziano acconsentì e quella solenne esposizione determinò la visita ininterrotta e devota di Brindisini tanto che «tranquillato poscia il mare e rasserenata l’aria, essendo già il tempo opportuno alla partenza»… il Cristo decise di restare a Brindisi. Già, perché al veneziano che voleva riportarsi il sacro legno a bordo, «non fu possibile rimoverlo da quel luogo dov’era stato posto, ancorchè si avesse fatta ogni humana diligenza per levarlo». Né la forza, né le orazioni sortirono effetto. Si comprese come fosse «volontà di Dio non partirsi la sacra Imagine da quel luogo». Il nobile si piegò alla volontà divina. «Solo si pigliò – annota Della Monaca – per sua devotione il dito indice della man dritta, che si compiacque il Salvatore di dargli per gratificare il suo conduttore».
«Gionse felicemente alla sua Patria», Giovanni Cappello. Certamente ebbe modo di raccontare quanto di davvero singolare gli fosse accaduto, magari mostrando quell’indice del Cristo lasciato a Brindisi.
Certamente, nell’articolare il racconto, ricordò che tutto il fatto ebbe un’origine: «l’onde feroci dell’Adriatico». Le stesse che diedero l’avvio ad un’altra storia, conclusasi appena 17 chilometri più a sud: a Torchiarolo. In effetti, fu l’improvviso mutare del tempo ed il vento imperioso da nord che fece naufragare – siamo sempre nel Basso Medio Evo – una nave che da Venezia intendeva raggiunge l’Oriente. «Le onde s’arrabbiano e ruggiscono, il vascello trema…» - hanno scritto gli storici locali in tempi recenti -, lasciando il legno in balìa delle onde perché… «è la bufera, è la burrasca». «Il capitano suona la campanella di bordo con frenesia e spasmo – raccontano ancora – quasi volesse rompere o spezzare la bufera. Poi barcollando e sbattendo col corpo come un forsennato, raggiunge il posto di comando e strappa il bel Crocefisso di legno». Tutti hanno già abbandonato la nave ormai perduta. «Il capitano per ultimo ha seguito l’esempio dei suoi marinai», si legge ancora ed il narratore quasi vede il comandante che, «tenendosi stretto quel Crocefisso come un’ancora di salvezza, Gli gridava: “Signore, con Te nella vita e nella morte. O ci salveremo insieme o insieme affonderemo”». Tutto questo mentre il legno s’inabissa e intorno è buio ed il mare agitato, nelle ore notturne, fa ancor più paura.
“Gallo canente, spes redit”: al canto del gallo torna la speranza, dice il verso di un inno ambrosiano. Ed il nuovo giorno si presentò meno triste di quello appena passato: il capitano vide la terra vicina e lì «giunse avvinghiato a quella Croce su una spiaggia sconosciuta, sconvolta e deserta. È la spiaggia di Lendinuso o giù di lì». Passò qualche ora da quando il capitano del vascello affondato – immaginiamolo barcollante e senza forze, magari con gli abiti a brandelli, e stretto al suo Salvatore – raggiunse la terra ferma e, da qui, quel villaggio di poche case, dove «fece un giuramento di fede: Lascerò qui il mio grande Salvatore e in suo onore sorgerà una Chiesa da cui continui a dispensare grazia a chi a Lui ricorre con fede e amore”».
Fin qui il racconto. Di certo c’è che «quei contadini e quella povera gente si strinsero a quel Crocefisso che scelsero come Protettore» e quel Cristo ligneo, festeggiato nella duplice occasione del “rinvenimento” e della “esaltazione” della Croce, è sempre rimasto nella Chiesa matrice a vegliare sulla comunità cittadina. I Torchiarolesi, anno dopo anno, andarono sempre più legandosi a quel crocifisso e – risulta dai Registri parrocchiali del XIX secolo così ben compulsati dal compianto arciprete Mario Ciccarese – «alcuni cominciano da allora a prendere come nome proprio Crocefisso per i maschi e Crocefissa per le donne».
Nel dialetto torchiarolese si dice rispettivamente “Pisso” e “Pissa”: diminutivi dialettali usati anche a Latiano, centro nell’entroterra brindisino distante in linea d’aria una ventina di chilometri dal capoluogo, i cui cittadini sono anch’essi devotissimi del Cristo crocifisso.
Qui, però, non fu una tempesta a portarlo, ma una carovana di zingari, quelli che nell’immaginario collettivo – capace di resistere sotto altre forme di pregiudizio esteso ed attuale – sono un popolo infido. Quel popolo considerato tale, nei secoli passati, perché formato dai discendenti della stirpe di Caino padre dei suonatori di flauto e tamburo, maledetti e costretti a viaggiare per il mondo per l’eternità, ed ancora perché gli zingari avrebbero forgiato i chiodi della croce di Cristo, peccato che li condanna ad essere errabondi.
«Rubano i bambini!», dicevano gli avi. A Latiano, invece… Accadde che una carovana di zingari fece sosta «per qualche giorno» in una taverna. «Quando gli zingari decisero di lasciare il paese – raccontano gli storici che hanno messo per iscritto la leggenda -, non riuscirono a sollevare dal suolo una delle loro casse piene di mercanzia».
La soluzione al problema sembrò palese: bastava rendere più leggero il peso. «Pertanto – riprendono gli storici -, decisero di alleggerirla togliendo qualche oggetto». Evidentemente si fecero diversi tentativi per rendere la cassa trasportabile, perché gli storici dicono ancora: «La cassa venne sollevata dal suolo solo quando ne fu estratto un Crocifisso nero». Fatto evidentemente prodigioso se «gli astanti quasi tutti curiosi (non dimentichiamo che siamo in una taverna, n. d. r.), a tal vista si scoprirono il capo devotamente». E da quel momento… «Fu chiesto l’intervento del parroco che portò l’immagine in processione – si racconta ancora -. Gli zingari procrastinarono la loro partenza, cedendo ai latianesi il Crocifisso al quale però tolsero il dito della mano destra conservandolo con devozione e memoria». Quanti richiami alla leggenda brindisina! Un Crocifisso che, diventato improvvisamente pesantissimo, vuol restare lì dov’è; il dito indice spezzato dal precedente proprietario perché serbi memoria. A Brindisi però la chiesa già c’era ed è quella sulla cui facciata si legge: “1232 A(nno) FU(n)D(atio) CON(ven)TUS”. A Latiano c’era una taverna, ma al suo posto «fu subito innalzato un tempio in onore del Crocifisso e vi fu riposta l’immagine tuttora venerata».
Non siamo nel Medioevo: siamo in età barocca, post-tridentina per meglio dire. E siamo di fronte ad una scultura non grande (71 x 71 centimetri), capace però di fare della irremovibilità dettata dal peso la sua specificità prodigiosa. Difficile stabilire donde provenga «lu Crištu gnuru» o –se vogliamo stare alla leggenda – donde gli zingari l’abbiano portato fino a Latiano. Di certo c’è che «iconograficamente il Crocifisso si presenta con la testa piegata in avanti, quasi a rendere grazie a Dio. La squisita fattura del corpo in legno è retto da una croce rivestita di argento». Non solo. Gli storici locali ci hanno spiegato che «il crocifisso nero è cinto da un perizoma giallo» e che «durante il periodo delle festività un lungo perizoma azzurro, in tessuto, riccamente ricamato in oro, ricopre sino ai piedi il corpo del Cristo». Quel perizoma, da lontano, sembra un piviale, quasi a volerlo collegare alla corona di spine ed a fare di quel cristo non solo il “re”, ma anche il “sacerdote”. «Effuse sangue ed acqua», dicono i Vangeli ed il nostro crocifisso, all’altezza del costato, è «assistito» da due piccoli angeli.
Di questa statua si ha memoria da almeno 390 anni: il 25 settembre 1624, infatti, la chiesa fu concessa al Capitolo di Latiano ed il 17 ottobre 1697 fu costruito l’altare maggiore. Il vescovo oritano mons. Domenico Ridolti, nel 1629 di certo si inginocchiò ai suoi piedi, considerandola «un’antica statua di legno verso la quale i fedeli hanno una grande devozione». Da questa circostanza cronologica gli storici hanno ricavato «che la realizzazione di questo Crocifisso deve attribuirsi almeno al secolo precedente».
«In questa chiesa si conservano le reliquie della Santa Croce e della S. Spina di Nostro Signore Gesù Cristo», annotano ancora gli storici, senza riferimento alcuno agli zingari. Questi, del resto, avevano già fatto il loro «dovere» lasciando il Crocifisso, sebbene con un dito mozzato.
«Adriatic sea» è l’unico nome di un mare, che bagna l’Italia e coincide con il Golfo di Venezia: le insegne di San Marco, dunque, dominavano su quelle acque. Un dominio culturale più ampio, rispetto a quello politico: un dominio che si esprime proprio attraverso sulle onde di quel mare. Da lì arrivavano, ab immemorabili, le buone e le cattive notizie: l’Adriatico era (e ogni tanto è ancora) un mare di pirati ed era quello che solcarono i Turchi per fare eccidio ad Otranto. È quello, del resto, sul quale probabilmente navigò l’apostolo Pietro per raggiungere l’Italia e portare Cristo nel cuore dell’Impero, a Roma appunto.
Sono diversi i luoghi sul Basso Adriatico e sullo Jonio, che cercano nella tradizione orale, cristallizzatasi in un antico scritto o in un manufatto, la ragione dell’essere stati approdo dell’imbarcazione del Pescatore di Galilea e ancora pescatori sono quelli, che hanno portato sulle coste pugliesi i corpi di santi, custoditi nelle loro urne funerarie.
È agevole notare il passaggio dalla tradizione orale alla «realtà» dei corpi. Tutto però abbraccia la sfera del «prodigio» e dall’Adriatico, «mare di prodigi», sono giunti sulle nostre coste anche Madonne e Crocifissi e se un triangolo misterioso delinea un mare in altro continente, un triangolo prodigioso si può descrivere, con le storie di tre crocifisso ora conservati a Brindisi, Torchiarolo e Latiano.
Una tempesta in Adriatico, infatti, è alla base dei due prodigi e della presenza dei crocifissi a Brindisi e Torchiarolo. Del primo avvenimento portentoso lasciò memoria scritta il carmelitano Andrea Della Monaca, quando a Lecce “appresso Pietro Micheli”, nell’anno 1674, diede alle stampe, “con licenza de’ superiori”, la Memoria historica dell’antichissima e fedeliss(ima) città di Brindisi. Non interessa, in questa sede, verificare se e quanto il monaco abbia attinto dal manoscritto del Moricino, certamente è ancora affascinante leggere che quella «miracolosa Imagine del nostro Salvatore, di rilievo, pendente dal patibolo della Croce», allora come ora conservata nella Chiesa del Cristo dei Domenicani, non si mosse da quel luogo, dopo esservi giunta evidentemente con l’intenzione divina (per chi crede) di far lì la sua dimora. Prima di raccontare la storia, il padre Della Monaca descrisse il manufatto: «la materia è di legno – annotò -, né per tanti secoli ha possuto il tempo nuocerla, essendosi resa incorruttibile dalla divina Imagine ch’insè rattiene». Quindi iniziò a dire che una nave veneta giunse da Alessandria d’Egito, rifuggiandosi in porto perché «l’onde feroci dell’Adriatico» non consentivano la navigazione. A bordo di quella nave vi era «un Chiarissimo Venetiano, chiamato per Nome Giovanni Cappello, che veniva da Gierusalemme, dove per sua devotione haveva visitato quei Santi luoghi, portando con sé molte reliquie, e tra l’altre l’Imagine predetta del Santissimo Crocifisso».
Il veneziano fu ricevuto nel convento dei Domenicani dal superiore «ch’era di Bergamo, Città soggetta alla Republica Veneta» e fu proprio costui che, saputo del carico della nave, spinto «non tanto dalla curiosità, quanto dalla devotione», pregò il Cappello «che volesse farlo scendere in terra, acciò l’esponesse publicamente nella Chiesa, per farlo adorare dal Popolo Brindisino». Il veneziano acconsentì e quella solenne esposizione determinò la visita ininterrotta e devota di Brindisini tanto che «tranquillato poscia il mare e rasserenata l’aria, essendo già il tempo opportuno alla partenza»… il Cristo decise di restare a Brindisi. Già, perché al veneziano che voleva riportarsi il sacro legno a bordo, «non fu possibile rimoverlo da quel luogo dov’era stato posto, ancorchè si avesse fatta ogni humana diligenza per levarlo». Né la forza, né le orazioni sortirono effetto. Si comprese come fosse «volontà di Dio non partirsi la sacra Imagine da quel luogo». Il nobile si piegò alla volontà divina. «Solo si pigliò – annota Della Monaca – per sua devotione il dito indice della man dritta, che si compiacque il Salvatore di dargli per gratificare il suo conduttore».
«Gionse felicemente alla sua Patria», Giovanni Cappello. Certamente ebbe modo di raccontare quanto di davvero singolare gli fosse accaduto, magari mostrando quell’indice del Cristo lasciato a Brindisi.
Certamente, nell’articolare il racconto, ricordò che tutto il fatto ebbe un’origine: «l’onde feroci dell’Adriatico». Le stesse che diedero l’avvio ad un’altra storia, conclusasi appena 17 chilometri più a sud: a Torchiarolo. In effetti, fu l’improvviso mutare del tempo ed il vento imperioso da nord che fece naufragare – siamo sempre nel Basso Medio Evo – una nave che da Venezia intendeva raggiunge l’Oriente. «Le onde s’arrabbiano e ruggiscono, il vascello trema…» - hanno scritto gli storici locali in tempi recenti -, lasciando il legno in balìa delle onde perché… «è la bufera, è la burrasca». «Il capitano suona la campanella di bordo con frenesia e spasmo – raccontano ancora – quasi volesse rompere o spezzare la bufera. Poi barcollando e sbattendo col corpo come un forsennato, raggiunge il posto di comando e strappa il bel Crocefisso di legno». Tutti hanno già abbandonato la nave ormai perduta. «Il capitano per ultimo ha seguito l’esempio dei suoi marinai», si legge ancora ed il narratore quasi vede il comandante che, «tenendosi stretto quel Crocefisso come un’ancora di salvezza, Gli gridava: “Signore, con Te nella vita e nella morte. O ci salveremo insieme o insieme affonderemo”». Tutto questo mentre il legno s’inabissa e intorno è buio ed il mare agitato, nelle ore notturne, fa ancor più paura.
“Gallo canente, spes redit”: al canto del gallo torna la speranza, dice il verso di un inno ambrosiano. Ed il nuovo giorno si presentò meno triste di quello appena passato: il capitano vide la terra vicina e lì «giunse avvinghiato a quella Croce su una spiaggia sconosciuta, sconvolta e deserta. È la spiaggia di Lendinuso o giù di lì». Passò qualche ora da quando il capitano del vascello affondato – immaginiamolo barcollante e senza forze, magari con gli abiti a brandelli, e stretto al suo Salvatore – raggiunse la terra ferma e, da qui, quel villaggio di poche case, dove «fece un giuramento di fede: Lascerò qui il mio grande Salvatore e in suo onore sorgerà una Chiesa da cui continui a dispensare grazia a chi a Lui ricorre con fede e amore”».
Fin qui il racconto. Di certo c’è che «quei contadini e quella povera gente si strinsero a quel Crocefisso che scelsero come Protettore» e quel Cristo ligneo, festeggiato nella duplice occasione del “rinvenimento” e della “esaltazione” della Croce, è sempre rimasto nella Chiesa matrice a vegliare sulla comunità cittadina. I Torchiarolesi, anno dopo anno, andarono sempre più legandosi a quel crocifisso e – risulta dai Registri parrocchiali del XIX secolo così ben compulsati dal compianto arciprete Mario Ciccarese – «alcuni cominciano da allora a prendere come nome proprio Crocefisso per i maschi e Crocefissa per le donne».
Nel dialetto torchiarolese si dice rispettivamente “Pisso” e “Pissa”: diminutivi dialettali usati anche a Latiano, centro nell’entroterra brindisino distante in linea d’aria una ventina di chilometri dal capoluogo, i cui cittadini sono anch’essi devotissimi del Cristo crocifisso.
Qui, però, non fu una tempesta a portarlo, ma una carovana di zingari, quelli che nell’immaginario collettivo – capace di resistere sotto altre forme di pregiudizio esteso ed attuale – sono un popolo infido. Quel popolo considerato tale, nei secoli passati, perché formato dai discendenti della stirpe di Caino padre dei suonatori di flauto e tamburo, maledetti e costretti a viaggiare per il mondo per l’eternità, ed ancora perché gli zingari avrebbero forgiato i chiodi della croce di Cristo, peccato che li condanna ad essere errabondi.
«Rubano i bambini!», dicevano gli avi. A Latiano, invece… Accadde che una carovana di zingari fece sosta «per qualche giorno» in una taverna. «Quando gli zingari decisero di lasciare il paese – raccontano gli storici che hanno messo per iscritto la leggenda -, non riuscirono a sollevare dal suolo una delle loro casse piene di mercanzia».
La soluzione al problema sembrò palese: bastava rendere più leggero il peso. «Pertanto – riprendono gli storici -, decisero di alleggerirla togliendo qualche oggetto». Evidentemente si fecero diversi tentativi per rendere la cassa trasportabile, perché gli storici dicono ancora: «La cassa venne sollevata dal suolo solo quando ne fu estratto un Crocifisso nero». Fatto evidentemente prodigioso se «gli astanti quasi tutti curiosi (non dimentichiamo che siamo in una taverna, n. d. r.), a tal vista si scoprirono il capo devotamente». E da quel momento… «Fu chiesto l’intervento del parroco che portò l’immagine in processione – si racconta ancora -. Gli zingari procrastinarono la loro partenza, cedendo ai latianesi il Crocifisso al quale però tolsero il dito della mano destra conservandolo con devozione e memoria». Quanti richiami alla leggenda brindisina! Un Crocifisso che, diventato improvvisamente pesantissimo, vuol restare lì dov’è; il dito indice spezzato dal precedente proprietario perché serbi memoria. A Brindisi però la chiesa già c’era ed è quella sulla cui facciata si legge: “1232 A(nno) FU(n)D(atio) CON(ven)TUS”. A Latiano c’era una taverna, ma al suo posto «fu subito innalzato un tempio in onore del Crocifisso e vi fu riposta l’immagine tuttora venerata».
Non siamo nel Medioevo: siamo in età barocca, post-tridentina per meglio dire. E siamo di fronte ad una scultura non grande (71 x 71 centimetri), capace però di fare della irremovibilità dettata dal peso la sua specificità prodigiosa. Difficile stabilire donde provenga «lu Crištu gnuru» o –se vogliamo stare alla leggenda – donde gli zingari l’abbiano portato fino a Latiano. Di certo c’è che «iconograficamente il Crocifisso si presenta con la testa piegata in avanti, quasi a rendere grazie a Dio. La squisita fattura del corpo in legno è retto da una croce rivestita di argento». Non solo. Gli storici locali ci hanno spiegato che «il crocifisso nero è cinto da un perizoma giallo» e che «durante il periodo delle festività un lungo perizoma azzurro, in tessuto, riccamente ricamato in oro, ricopre sino ai piedi il corpo del Cristo». Quel perizoma, da lontano, sembra un piviale, quasi a volerlo collegare alla corona di spine ed a fare di quel cristo non solo il “re”, ma anche il “sacerdote”. «Effuse sangue ed acqua», dicono i Vangeli ed il nostro crocifisso, all’altezza del costato, è «assistito» da due piccoli angeli.
Di questa statua si ha memoria da almeno 390 anni: il 25 settembre 1624, infatti, la chiesa fu concessa al Capitolo di Latiano ed il 17 ottobre 1697 fu costruito l’altare maggiore. Il vescovo oritano mons. Domenico Ridolti, nel 1629 di certo si inginocchiò ai suoi piedi, considerandola «un’antica statua di legno verso la quale i fedeli hanno una grande devozione». Da questa circostanza cronologica gli storici hanno ricavato «che la realizzazione di questo Crocifisso deve attribuirsi almeno al secolo precedente».
«In questa chiesa si conservano le reliquie della Santa Croce e della S. Spina di Nostro Signore Gesù Cristo», annotano ancora gli storici, senza riferimento alcuno agli zingari. Questi, del resto, avevano già fatto il loro «dovere» lasciando il Crocifisso, sebbene con un dito mozzato.