
il satiro che decise di affrontare nei suoi scritti temi e problemi propri del suo tempo...
Con Giovenale si chiude la storia del genere satirico a Roma assumendo un carattere specifico, quello di sdegnato atto d’accusa contro i mali della società contemporanea.
Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino, nel Lazio meridionale, verso il 60 d.C. da una famiglia alquanto agiata, che gli consentì di studiare presso le scuole di retorica del tempo e di esercitare l’avvocatura, sia pure per breve tempo e con scarsa fortuna. Infatti la sua passione fu sempre la poesia, al servizio della quale mise i suoi talenti. Incominciò a poetare piuttosto tardi, dopo la morte di Domiziano (96 d. C.), allorché a Roma si tornò a ‘respirare’ politicamente con l’avvento di imperatori più miti e clementi (Nerva-Traiano-Adriano). La poesia, tuttavia, non gli assicurò fortuna e benessere, anzi fu costretto alla vita scomoda del cliens, peregrinando da un signore all’altro per far fronte alle necessità quotidiane e godendo di una libertà ‘limitata’. Fu in rapporti di amicizia con Marziale, di una diecina d’anni più anziano di lui, dal quale ricevette manifestazioni di stima e di lode. Scrisse sino all’avvento dell’imperatore Adriano e un riferimento ad avvenimenti del 127 d. C., desumibile dai suoi componimenti, rappresenta il terminus post quem per stabilire la data della morte, di cui non abbiamo notizie certe.
Il nome di Giovenale è essenzialmente legato alla produzione delle Satire, che egli compose in numero di 16, distribuite in cinque libri (ma tale articolazione non si deve a lui ma a grammatici, cioè i filologi del tempo, che dopo la morte ne curarono il testo).
Per comprendere il significato dell’opera di Giovenale, bisogna osservare subito che egli, stanco di essere ascoltatore (auditor) più o meno passivo delle declamazioni retoriche, tanto in voga al suo tempo e che facevano della mitologia e delle cause fittizie il cavallo di battaglia, desiderò scrivere, affrontando temi e problemi propri del suo tempo.
Naturalmente, non mancò di trattare questa materia utilizzando sul piano formale tutte quelle preziosità ed artifici retorici, che aveva ben assimilato e nelle varie scuole avevano trovato terreno più che fertile.
Da dove nasce la satira giovenaliana?
È lui stesso a rispondere alla domanda: infatti, rifacendosi alla lezione austera di Lucilio (l’auctor della satira romana), nella prima satira, che ha il valore di “dichiarazione programmatica”, sostiene che è lo sdegno ad ispirare la sua poesia. Famosa l’espressione indignatio facit versus.
Sdegno, risentimento contro i mali della società contemporanea, caratterizzata dal degrado della nobilitas e dalla progressiva ascesa delle classi mercantili, dall’avvento dei cacciatori di eredità, dal trionfo della corruzione e dell’adulterio, dalla negazione assoluta di ogni legge morale. Di fronte a questa situazione non può tacere. È la realtà stessa che gli fornisce la materia per una poesia sdegnata e risentita. La ricchezza è ormai l’aspirazione suprema di tutti, e per riuscire a raggiungerla bisogna tentare i delitti più spregiudicati e le vie più tortuose ; la gente perbene riceve lodi solo a parole, ma di fatto non conta niente. Giovenale perciò non può non guardare con nostalgia ed ammirazione alla Roma di un tempo, quella dell’età arcaica, in cui le classi sociali erano ben distinte (direi socialmente e politicamente separate) e avevano un ruolo preciso e il mos maiorum illuminava e guidava le coscienze.
A fare le spese perciò della sua acrimonia e del suo sdegno sono soprattutto i giovani aristocratici debosciati, gli stranieri (specie Graeculi ed egiziani), gli omosessuali, le donne. Anzi, sono soprattutto le donne, quelle emancipate e libere, il bersaglio privilegiato in quanto personificano lo scempio stesso del pudore. Nella Satira VI, più nota come la satira contro le donne, Giovenale condensa maggiormente le sue idee di riprovazione e condanna contro l’universo femminile, affetto da una sorta di vera e propria ninfomania. Nella sua virulenza e, direi, nell’offuscamento della mente che lo porta all’assoluto rifiuto del presente, non riesce a salvare nessuno, a distinguere tra caso e caso di depravazione e ad individuare qualche area di onestà e rettitudine. In questo appare molto lontano da quello spirito di tolleranza e di amabilità presente nella satira oraziana.
In questo contesto campeggia la cupa grandezza di Messalina, moglie dell’imperatore Claudio e perciò definita Augusta meretrix, consegnata ai posteri per la sua sfrenata libidine in un ritratto indimenticabile: «La moglie, non appena lo vedeva addormentato, spingendo la sua audacia di augusta meretrice sino a preferire una stuoia al talamo del Palatino, incappucciata di nero, l’abbandonava scortata da una sola ancella. Nascondendo la chioma scura sotto una parrucca bionda, varcava la soglia di un lupanare tenuto caldo da un tendone malandato, dove in una cella a lei riservata, col falso nome di Licisca, si prostituiva ignuda, i capezzoli dorati, offrendo il ventre che, generoso Britannico, un tempo t’aveva portato. Lasciva accoglieva i clienti, chiedeva il prezzo pattuito (e giacendo supina assaporava l’assalto di ognuno…» (trad. E. Barelli).
Insomma, se Messalina rappresenta la punta più alta della corruzione morale, il resto delle donne non sono da meno, in quanto lontanissime da quel modello di matrona, dedita alla cura della casa e dei figli, al rispetto del marito e della pudicitia, che facevano di lei un punto di riferimento essenziale nell’equilibrio sociale ed affettivo della società romana.
Si tenga perciò lontano l’uomo dal matrimonio, se non vuole patire tristi conseguenze e ancor più tristi delusioni: sembra essere questa l’amara conclusione del poeta laziale. Numerosi sono i passi, all’interno delle Satire, in cui Giovenale non risparmia i suoi violenti strali contro le donne libere e disinibite del tempo, versando su di loro la sua bile senza fine, specie quando siano mosse dalla libido e dai fumi del vino : «Di che più si cura la passione dei sensi eccitata dal vino? Non sa più distinguere l’inguine dalla bocca, colei che nel colmo della notte morde grandi ostriche, quando spumeggiano i profumi profusi nel puro Falerno, quando si tracanna dalle conchiglie e il soffitto ondeggia nell’ebbrezza e sulla mensa paiono doppie le lucerne. Dubita ora della smorfia con cui Tullia assorbe l’aria, o di quel che dice Maura malfamata all’altra Maura, sua sorella di latte, quando passano davanti all’altare dell’antica Pudicizia.
Di notte proprio qui fan fermare le loro lettighe e, smaniose di orinare, inondano la faccia della dea coi loro lunghi zampilli, e si cavalcano a vicenda, e s’agitano l’una addosso all’altra sotto il lume della luna. Poi ritornano a casa: e tu, al mattino, quando ti rechi a visitare gli amici potenti, calpesti l’urina di tua moglie…» (Sat. VI, trad. E. Barelli).
Da questo passo si evince che il vino rappresenta un ingrediente privilegiato, direi quasi un ‘moltiplicatore di tensione’ della passione in senso lato, in quanto non si tratta di specifica passione amorosa, e che il Falerno, già ritrovato in tutti i poeti latini di cui ci siamo sin qui occupati (Catullo, Orazio, Ovidio, Properzio…) rappresenta il vero fil rouge che attraversa la poesia latina amorosa e il vertice, insieme al Cècubo, della più accreditata enologia romana. Agli stranieri che hanno invaso Roma sono inoltre dedicate pagine eloquenti, come si può leggere nella Satira III, dove Umbricio scappa da Roma, perché qui una persona normale non può più vivere. Infatti non c’è più spazio per i mestieri dignitosi, e le ricompense per le fatiche oneste non bastano più per vivere decentemente. Un vero Romano non ha più spazio in una città come questa, dove i soldi valgono più delle buone qualità, e dove le migliori carriere sono destinate agli arrivisti più spregiudicati. Cosa ha portato a una così insopportabile degenerazione dei costumi di una volta?
Come spesso accade in casi analoghi, la responsabilità non viene cercata dentro Roma, ma al suo esterno. La città, secondo Umbricio, non aveva in sé le radici del proprio male, ma è stata aggredita da un agente esterno: è stata infatti invasa e rovinata da una massa incontenibile di stranieri. Sarebbero questi ‘invasori’ ad averla snaturata con i loro costumi e ad aver occupato tutti i posti che prima erano riservati ai suoi “veri” abitanti.
Anche in questa visione della realtà, Giovenale si dimostra chiuso ad ogni novità e concepisce la città come un organismo ben definito, dai confini netti e ben visibili, che dovrebbe essere impermeabile all’azione di forze esterne. Insomma, per dirla in termini moderni, c’è una logica razzista (in senso lato) che vede nell’altro, nel ‘diverso’, un qualcosa da espellere e da cacciar via.
Nonostante ciò, la sua satira resta, pur nella sua complessità e talora nelle innegabili contraddizioni interne, un documento storico-letterario di particolare forza proprio per l’intensa e sofferta partecipazione emotiva ed intellettuale di questo letterato del II secolo, che si muove sempre un po’ (!) “sopra le righe”.
Con Giovenale si chiude la storia del genere satirico a Roma assumendo un carattere specifico, quello di sdegnato atto d’accusa contro i mali della società contemporanea.
Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino, nel Lazio meridionale, verso il 60 d.C. da una famiglia alquanto agiata, che gli consentì di studiare presso le scuole di retorica del tempo e di esercitare l’avvocatura, sia pure per breve tempo e con scarsa fortuna. Infatti la sua passione fu sempre la poesia, al servizio della quale mise i suoi talenti. Incominciò a poetare piuttosto tardi, dopo la morte di Domiziano (96 d. C.), allorché a Roma si tornò a ‘respirare’ politicamente con l’avvento di imperatori più miti e clementi (Nerva-Traiano-Adriano). La poesia, tuttavia, non gli assicurò fortuna e benessere, anzi fu costretto alla vita scomoda del cliens, peregrinando da un signore all’altro per far fronte alle necessità quotidiane e godendo di una libertà ‘limitata’. Fu in rapporti di amicizia con Marziale, di una diecina d’anni più anziano di lui, dal quale ricevette manifestazioni di stima e di lode. Scrisse sino all’avvento dell’imperatore Adriano e un riferimento ad avvenimenti del 127 d. C., desumibile dai suoi componimenti, rappresenta il terminus post quem per stabilire la data della morte, di cui non abbiamo notizie certe.
Il nome di Giovenale è essenzialmente legato alla produzione delle Satire, che egli compose in numero di 16, distribuite in cinque libri (ma tale articolazione non si deve a lui ma a grammatici, cioè i filologi del tempo, che dopo la morte ne curarono il testo).
Per comprendere il significato dell’opera di Giovenale, bisogna osservare subito che egli, stanco di essere ascoltatore (auditor) più o meno passivo delle declamazioni retoriche, tanto in voga al suo tempo e che facevano della mitologia e delle cause fittizie il cavallo di battaglia, desiderò scrivere, affrontando temi e problemi propri del suo tempo.
Naturalmente, non mancò di trattare questa materia utilizzando sul piano formale tutte quelle preziosità ed artifici retorici, che aveva ben assimilato e nelle varie scuole avevano trovato terreno più che fertile.
Da dove nasce la satira giovenaliana?
È lui stesso a rispondere alla domanda: infatti, rifacendosi alla lezione austera di Lucilio (l’auctor della satira romana), nella prima satira, che ha il valore di “dichiarazione programmatica”, sostiene che è lo sdegno ad ispirare la sua poesia. Famosa l’espressione indignatio facit versus.
Sdegno, risentimento contro i mali della società contemporanea, caratterizzata dal degrado della nobilitas e dalla progressiva ascesa delle classi mercantili, dall’avvento dei cacciatori di eredità, dal trionfo della corruzione e dell’adulterio, dalla negazione assoluta di ogni legge morale. Di fronte a questa situazione non può tacere. È la realtà stessa che gli fornisce la materia per una poesia sdegnata e risentita. La ricchezza è ormai l’aspirazione suprema di tutti, e per riuscire a raggiungerla bisogna tentare i delitti più spregiudicati e le vie più tortuose ; la gente perbene riceve lodi solo a parole, ma di fatto non conta niente. Giovenale perciò non può non guardare con nostalgia ed ammirazione alla Roma di un tempo, quella dell’età arcaica, in cui le classi sociali erano ben distinte (direi socialmente e politicamente separate) e avevano un ruolo preciso e il mos maiorum illuminava e guidava le coscienze.
A fare le spese perciò della sua acrimonia e del suo sdegno sono soprattutto i giovani aristocratici debosciati, gli stranieri (specie Graeculi ed egiziani), gli omosessuali, le donne. Anzi, sono soprattutto le donne, quelle emancipate e libere, il bersaglio privilegiato in quanto personificano lo scempio stesso del pudore. Nella Satira VI, più nota come la satira contro le donne, Giovenale condensa maggiormente le sue idee di riprovazione e condanna contro l’universo femminile, affetto da una sorta di vera e propria ninfomania. Nella sua virulenza e, direi, nell’offuscamento della mente che lo porta all’assoluto rifiuto del presente, non riesce a salvare nessuno, a distinguere tra caso e caso di depravazione e ad individuare qualche area di onestà e rettitudine. In questo appare molto lontano da quello spirito di tolleranza e di amabilità presente nella satira oraziana.
In questo contesto campeggia la cupa grandezza di Messalina, moglie dell’imperatore Claudio e perciò definita Augusta meretrix, consegnata ai posteri per la sua sfrenata libidine in un ritratto indimenticabile: «La moglie, non appena lo vedeva addormentato, spingendo la sua audacia di augusta meretrice sino a preferire una stuoia al talamo del Palatino, incappucciata di nero, l’abbandonava scortata da una sola ancella. Nascondendo la chioma scura sotto una parrucca bionda, varcava la soglia di un lupanare tenuto caldo da un tendone malandato, dove in una cella a lei riservata, col falso nome di Licisca, si prostituiva ignuda, i capezzoli dorati, offrendo il ventre che, generoso Britannico, un tempo t’aveva portato. Lasciva accoglieva i clienti, chiedeva il prezzo pattuito (e giacendo supina assaporava l’assalto di ognuno…» (trad. E. Barelli).
Insomma, se Messalina rappresenta la punta più alta della corruzione morale, il resto delle donne non sono da meno, in quanto lontanissime da quel modello di matrona, dedita alla cura della casa e dei figli, al rispetto del marito e della pudicitia, che facevano di lei un punto di riferimento essenziale nell’equilibrio sociale ed affettivo della società romana.
Si tenga perciò lontano l’uomo dal matrimonio, se non vuole patire tristi conseguenze e ancor più tristi delusioni: sembra essere questa l’amara conclusione del poeta laziale. Numerosi sono i passi, all’interno delle Satire, in cui Giovenale non risparmia i suoi violenti strali contro le donne libere e disinibite del tempo, versando su di loro la sua bile senza fine, specie quando siano mosse dalla libido e dai fumi del vino : «Di che più si cura la passione dei sensi eccitata dal vino? Non sa più distinguere l’inguine dalla bocca, colei che nel colmo della notte morde grandi ostriche, quando spumeggiano i profumi profusi nel puro Falerno, quando si tracanna dalle conchiglie e il soffitto ondeggia nell’ebbrezza e sulla mensa paiono doppie le lucerne. Dubita ora della smorfia con cui Tullia assorbe l’aria, o di quel che dice Maura malfamata all’altra Maura, sua sorella di latte, quando passano davanti all’altare dell’antica Pudicizia.
Di notte proprio qui fan fermare le loro lettighe e, smaniose di orinare, inondano la faccia della dea coi loro lunghi zampilli, e si cavalcano a vicenda, e s’agitano l’una addosso all’altra sotto il lume della luna. Poi ritornano a casa: e tu, al mattino, quando ti rechi a visitare gli amici potenti, calpesti l’urina di tua moglie…» (Sat. VI, trad. E. Barelli).
Da questo passo si evince che il vino rappresenta un ingrediente privilegiato, direi quasi un ‘moltiplicatore di tensione’ della passione in senso lato, in quanto non si tratta di specifica passione amorosa, e che il Falerno, già ritrovato in tutti i poeti latini di cui ci siamo sin qui occupati (Catullo, Orazio, Ovidio, Properzio…) rappresenta il vero fil rouge che attraversa la poesia latina amorosa e il vertice, insieme al Cècubo, della più accreditata enologia romana. Agli stranieri che hanno invaso Roma sono inoltre dedicate pagine eloquenti, come si può leggere nella Satira III, dove Umbricio scappa da Roma, perché qui una persona normale non può più vivere. Infatti non c’è più spazio per i mestieri dignitosi, e le ricompense per le fatiche oneste non bastano più per vivere decentemente. Un vero Romano non ha più spazio in una città come questa, dove i soldi valgono più delle buone qualità, e dove le migliori carriere sono destinate agli arrivisti più spregiudicati. Cosa ha portato a una così insopportabile degenerazione dei costumi di una volta?
Come spesso accade in casi analoghi, la responsabilità non viene cercata dentro Roma, ma al suo esterno. La città, secondo Umbricio, non aveva in sé le radici del proprio male, ma è stata aggredita da un agente esterno: è stata infatti invasa e rovinata da una massa incontenibile di stranieri. Sarebbero questi ‘invasori’ ad averla snaturata con i loro costumi e ad aver occupato tutti i posti che prima erano riservati ai suoi “veri” abitanti.
Anche in questa visione della realtà, Giovenale si dimostra chiuso ad ogni novità e concepisce la città come un organismo ben definito, dai confini netti e ben visibili, che dovrebbe essere impermeabile all’azione di forze esterne. Insomma, per dirla in termini moderni, c’è una logica razzista (in senso lato) che vede nell’altro, nel ‘diverso’, un qualcosa da espellere e da cacciar via.
Nonostante ciò, la sua satira resta, pur nella sua complessità e talora nelle innegabili contraddizioni interne, un documento storico-letterario di particolare forza proprio per l’intensa e sofferta partecipazione emotiva ed intellettuale di questo letterato del II secolo, che si muove sempre un po’ (!) “sopra le righe”.
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