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Come difendersi dall’enopirateria: l’importanza della registrazione del marchio d’impresa.

Dal dipinto di Berents in cui possiamo immaginare il vino Primitivo di Manduria al prosciutto di Parma di Munari, oggi, come non mai, il simbolo evoca molte più argomentazioni di quante storicamente ne contenga.
La visibilità del bene enoico è correlata alla registrazione dell’etichetta riconducibile al marchio d’impresa, ossia ad uno strumento insostituibile della comunicazione con il pubblico.
L’etichetta - segno distintivo, infatti, costituisce il mezzo per intensificare il rapporto del consumatore con i prodotti attraverso proprie peculiarità, poiché non si limita ad identificare l’origine del vino, ma istituisce un vero e proprio rapporto di fiducia col consumatore impegnando la reputazione dell’impresa e offrendo la garanzia di una qualità costante.
Per l’imprenditore vitivinicolo, l’etichettaproprietà industriale rappresenta, invece, una sorta d’investimento commerciale tramite la concessione di licenze, di contratti d’esclusiva, mediante il merchandising e la sponsorizzazione. I diritti c.d. di privativa, ossia la facoltà di fare uso esclusivo del marchio, sono conferiti con la registrazione, e decorrono dal momento di presentazione della relativa domanda. L’esercizio di queste prerogative abilitano il titolare del marchio a vietare ai terzi, salvo il proprio consenso, l’utilizzo nell’attività economica di un segno identico o simile al proprio.
L’acquisto del diritto di esclusiva nella commercializzazione enoica rappresenta un punto di forza indiscusso del titolare dell’etichetta: quanto più i prodotti che se ne fregiano sono riconosciuti e apprezzati dal consumatore, tanto più stimolano la diversificazione della produzione e proteggono i beni dalle appropriazioni indebite perpetrate da parte dei terzi.
La normativa di riferimento è contenuta nel Codice della proprietà industriale (decreto legislativo n. 30 del 10 febbraio 2005). e successive integrazioni e modificazioni. In termini generali, si identificano i marchi individuali e quelli collettivi qualificando nella prima categoria i segni finalizzati a distinguere un singolo prodotto o servizio di un imprenditore, mentre nella seconda quelli utili a garantire l'origine, la natura o la qualità di prodotti o servizi. La registrazione di marchi collettivi è concessa a quei soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi e che possono concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti che rispettino determinati requisiti. In ambito enoico, i marchi collettivi corrispondono alle certificazioni dei vini che a seconda delle qualità saranno contrassegnati dalla denominazione di origine controllata e garantita (DOCG) denominazione di origine controllata (DOC), ovvero dall’indicazione geografica tipica (IGT). Per la denominazione di origine di vini si intende il nome geografico di una zona vitivinicola particolarmente vocata alla coltivazione di un vitigno specifico sia, per peculiarità proprie ambientali, sia per particolari combinazioni favorevoli collegate alle risorse umane disponibili. Per indicazione geografica tipica dei vini si intende il nome geografico di una zona che conferisce nerbo al bene prodotto. Tralasciando le procedure per ottenere il riconoscimento dei c.d. marchi di qualità, stigmatizzate dal legislatore comunitario e recepite sapientemente da quello nazionale con il recente decreto legislativo 61/2010, è opportuno indicare le forme di tutela nella disponibilità dell’imprenditore vitivinicolo nell’ipotesi di violazione dei diritti di privativa discendenti tanto dai marchi individuali quanto dalle denominazioni di origine e dalle indicazioni geografiche tipiche (c.d. enopirateria dell’etichetta).
Il marchio implica una mutazione del mercato che conduce il consumatore ad una ricerca della qualità, in contrapposizione al dilagante ed impersonale fenomeno della pirateria alimentare espressione patologica della clonazione industriale e tecnologica.
Innanzitutto cos’è l’enopirateria? Tecnicamente potremmo riconoscerla in una pratica commerciale ingannevole caratterizzata dall’arbitrario impiego, (ossia senza alcun titolo) di un nome o di un marchio, ovvero dall’utilizzo di una denominazione in modo non conforme alle indicazioni prescritte nel Disciplinare di Produzione.
A fini meramente esemplificativi dei due ambiti, si richiamano due casi emblematici: il Tokai per la prima categoria (violazione dei diritti di privativa) ed il Brunello per la seconda ( inosservanza del Disciplinare di produzione). La controversia relativa all’uso di indicazioni omonime, di cui l’una espressiva di un riferimento geografico (la denominazione di origine ungherese “Tokai”) l’altra di un’indicazione di qualità (“Tocai”) relativa a un vitigno e a una produzione localizzata nel nord est d’Italia si è conclusa con la sentenza n.12 maggio 2005, C-347/03 che la Corte di Giustizia ha definito in favore dell’Ungheria con conseguente perdita del diritto all’utilizzo del nome da parte dell’Italia. La pronuncia in sede comunitaria, prescindendo dalle qualità organolettiche dei due vini essendo essi completamente diversi per uvaggio e caratteristiche sensoriali, ha argomentato esclusivamente sui diritti di privativa discendenti dalle etichette. La questione del “Brunello”, invece, attiene alla violazione dei c.d. Disciplinari di Produzione, ossia l’insieme delle leggi e delle indicazioni la cui osservanza è condizione necessaria per accedere alla certificazione di qualità del vino prodotto e poterlo commercializzare senza incorrere nelle fattispecie di frode. In genere nel diritto alimentare la frode è una espressione onnicomprensiva, sia della frode commerciale sia di tutte quelle fattispecie di non conformità sostanziale alle norme che disciplinano i singoli prodotti.
In entrambi i casi riportati si è trattato, in senso ampio, di violazione di specifiche regole, legislative interne, comunitarie e convenzionali dettate sia a salvaguardia della certezza delle indicazioni e del diritto per i produttori, sia a tutela della scelta operata dal consumatore finale di un prodotto con indicazioni “trasparenti”.
La casistica riportata ha avuto lo scopo di dimostrare che, in un mercato globalizzato, talvolta incontrollato e talaltra delegificato, come quello attuale, il vantaggio sta proprio nel praticare il rigore della disciplina di riferimento, e nel rendere disponibile la visibilità della garanzia di qualità dei beni.
In conclusione, l’imprenditore vitivinicolo che “gestisce e dirige” l’azienda all’insegna della professionalità, diviene portatore qualificato dell’interesse a rendere i propri beni visibili al consumatore, ed è solo questo tipo di governance che lo scuderà, in via di prevenzione, dall’enopirateria selvaggia e dai conseguenti pregiudizi che direttamente ed indirettamente si ripercuoteranno nell’attività d’impresa.